È un’ulteriore versione dell’Ultima Cena, difficile da classificare prima o dopo quella di Fontevivo di cui è una soluzione alternativa, a figure intere degli Apostoli. Tutte le guide locali a partire dal primo ’700 attestano nel convento di Santa Maria della Neve la presenza di un Cenacolo unitamente a una Deposizione. Quando il dipinto ricompare negli inventari manoscritti dell’Accademia nel 1812 viene citato come copia dello Schedoni e si è persa la provenienza.

Di recente la Cecchinelli si pone seriamente la questione cercando di dare soluzione ai numerosi quesiti sorti relativamente alle due versioni n. 132 e 905. Concordiamo con chi è ormai convenuto sulla autografia di questo dipinto, che è stato assai discusso anche per le pessime condizioni conservative, risolte in parte nel 1968, e con definitiva completezza nel 1997; il restauro ha consentito una svolta attributiva già alla Ghidiglia Quintavalle, allorché lo espone nella mostra Tesori nascosti, ascrivendolo definitivamente a Schedoni e annullando la precedente assegnazione a Jacopo Maria Giovannini e le ulteriori incertezze che si erano perpetuate nel tempo. Si è cercato poi di dirimere la questione della provenienza apportando una serie di documentate ragioni e assegnandone la committenza a Ranuccio I e a un comportamento parallelo del duca nell’assecondare le esigenze dei cappuccini e delle cappuccine, ritenendo quest’opera dipinta per il loro complesso conventuale fondato a Parma a partire dal 1607 e completato verso il 1610.

L’aspetto più interessante e fondamentale sul piano meramente artistico è la doppia soluzione adottata da Schedoni, che ci dimostra una tecnica pseudofotografica. Nel n. 132 è come se applicasse uno zoom a questa seconda edizione o viceversa allontanasse la precedente per inquadrare una porzione spaziale più vasta. Del resto entrambi i dipinti possono essere datati verso il 1611, anche se è difficile definire a quale dei due assegnare la primogenitura. Si può solo formulare un esame preciso delle due proposte che mantengono la stessa circolarità dei personaggi, la stessa posizione e lo stesso ritmo gestuale, solo che questa versione ci consente di entrare più profondamente nello spazio architettonico e di apprezzare le figure intere. Proprio su questo allontanamento della scena che permette una sua dilatazione, ma anche un apprezzamento ottico meno definito degli oggetti e delle fisionomie si incardina un procedimento di tipo fotografico che anziché utilizzare la lente dell’obiettivo usa le leggi ottiche naturali, ben presenti agli artisti fin dal ’400.

Qui sta la grande modernità, prescientifica, di Schedoni che, in aderenza al proposito, risulta definire in modo più sommario anche le fisionomie e i manti che pure mantengono tonalità squillanti. È un esercizio ottico quello che ci propone, di cui non esistono altri esempi così volutamente esibiti. Un artista che normalmente adotta con frequenza il primissimo piano, ci sottopone una inedita capacità di regia, applicata alla stessa scena: caratteristica che si va ad aggiungere, anche per la sua volontà sperimentale, alle altre doti dell’artista.

Bibliografia
(de) Lama 1816, p. 117, n. 69;
Inventario… 1852, n. 87;
Ricci 1896, pp. 61-62;
Moschini 1927, pp. 129, 145;
Quintavalle A.O. 1939, pp. 63-65;
Fornari Schianchi 1993, pp. 32-34;
Negro – Pirondini 1994, pp. 239, 246 (con bibl. prec. su artista e opera)
Restauri
1815 (D. Muzzi);
1997 (Zamboni e Melloni)
Mostre
Bologna 1997
Scheda di Lucia Fornari Schianchi, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.