- Titolo: Ultima Cena
- Autore: Bartolomeo Schedoni
- Data: 1606 - 1611 circa
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 143 x 255
- Provenienza: Fontevivo, convento dei Cappuccini; Accademia, 1806, dopo le soppressioni napoleoniche e poi immessa nel Collegio
- Inventario: GN 132
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Bartolomeo Schedoni
- Sezione espositiva: Gli emiliani 1500-1600
Quest’opera si anticipa generalmente al 1611, o anche al 1606 (Quintavalle A.O. 1939) rispetto alle due seguenti, dove si assiste a un totale rinnovamento dello stile e a un cambiamento sorprendente del registro impaginativo.
Proviene anch’essa da Fontevivo e precisamente dal refettorio dove è segnalata sulla parete di fronte all’ingresso, come conveniva al tema, si veda in proposito anche l’esempio benedettino. In San Giovanni Evangelista, infatti, Girolamo Bedoli aveva incastonato nella grande parete in fondo del refettorio un’opera con lo stesso tema, ancora ivi, inserendola dentro una preziosa e bilanciatissima architettura ad affresco. Ranuccio I, nel suo disegno progettuale per Fontevivo non poteva dimenticare quell’eclatante esempio, e così commissiona allo Schedoni un’analoga soluzione con la “Cena degli Apostoli in figure quasi intiere”.
Ancora una volta sono i sacri testi a ispirarlo (Luca 22, 7-23, Matteo 26, 17-24): “venne poi il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua… vi mostrerà un cenacolo al piano superiore grande, con divani e cuscini e li apparecchiate… e quando fu giunta l’ora si mise a tavola insieme ai suoi Apostoli… ma, ecco la mano di colui che mi tradisce è con me sulla mensa… Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda, chi fra di loro poteva far questo”.
È proprio il momento del concitato corale interrogarsi che Schedoni inquadra, ponendoci in totale frontalità il Cristo che veglia sul sonno del giovane Giovanni e assiste allo scompiglio provocato fra i suoi discepoli dalle sue parole. Schedoni non era ancora maturo per un registro alto, si limita a una buona esecuzione dentro la norma, imponendoci una Cœna Domini dal tono popolare, nonostante la tovaglia di Fiandra, le brocche e le ciotole di manifattura emiliana, la ricchezza del pasto, con le carni dell’agnello nel piatto da portata. Tutto viene disposto in primissimo piano, predominano le teste barbute riprese in varie posizioni con un predominio della centralità prospettica sostenuta dall’aprirsi dei due Apostoli in controluce verso di noi, che producono una circolarità della scena, in antitesi al modello supremo costituito dall’orizzontalità del Cenacolo di Leonardo e le numerose altre varianti rinascimentali, nelle quali si impone la compostezza, il rigore, una prospettiva controllata.
Qui se non fossimo davanti a una scena sacra, converrebbe pensare a quel clima “di genere” che ha caratterizzato tanto Seicento nordico, impostato a lume di candela, ai banchetti familiari, alle scene notturne di tanta pittura lombarda. Ma lo Schedoni che pure doveva tenere a mente quelle atmosfere, lui che ci viene descritto come bizzoso, giocatore incallito e premuto dai debiti, come un Caravaggio padano, frequentatore di bettole e incline alla sfida, al litigio, risolve la scena con istintiva sensibilità e originalità in quel premere esageratamente sul primo piano, sul modulo dei panneggi, sulle tonalità e sulle luci che diventano la sua cifra predominante e inconfondibile, concedendo alla scena sacra una regia ancora una volta teatrale, anche se non preziosa come nei quadri successivi.
Dall’opera sono state tratte numerose copie ancora esistenti nella Rocca di Fontanellato, in San Liborio a Colorno, nel convento della Carmelitane a Parma, nella collezione Viezzoli a Genova, a dimostrazione del successo ottenuto.
Il Benati (1991a, p. 119) pubblica uno studio a olio del Metropolitan Museum di New York.