Nel 1759 esce in Francia il Candide di Voltaire, romanzo di formazione e d’apprendistato, specchio satirico di una società in evoluzione e/o in crisi; nel 1762, ancora in Francia, viene pubblicato Émile ou de l’éducation di Rousseau, lungo e appassionato pamphlet in cui Jean Jacques vagheggia la rinascita di un uomo “buono” in una società corrotta, attraverso un ideale ritorno a un’educazione sottratta ai cattivi influssi della vita sociale ma conforme a natura, e in cui per la prima volta, diremmo oggi, si richiama al riconoscimento e al rispetto dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, dunque fondamento di ogni pedagogia modernamente intesa.

In Italia nel 1763 viene edita la prima parte, Il mattino, del Giorno di Giuseppe Parini, quadro ironico e concretamente lucido della condizione educativa, e dunque del modello di vita, cui si conforma la gioventù aristocratica milanese. Il problema dell’educazione dei giovani è un tema forte della cultura illuminista europea, risalta la consapevolezza della sua centralità per una società che voglia in qualche modo rifondarsi. Proprio questo è il soggetto del nostro quadro, che costituisce una sorta di controcanto ideale, l’esplicitazione del modello implicito, e virtuoso, che Parini, nello stigmatizzare la débauche del Giovin Signore, lasciava solo intravedere fra le righe. E il modello è molto chiaro, è quello, classico, del “mens sana in corpore sano”.

Chirone, cui Teti affida un ritroso Achille bambino indica con precisione quale è la via: incorniciato da un arco roccioso si staglia il busto di Omero (dunque la poesia epica e più in generale la cultura classica), al quale sono appesi una faretra e l’arco (simboli della forza fisica e della virtù eroica), ai piedi dell’erma giace la lira, strumento musicale complemento indispensabile del percorso formativo. Implicitamente un’altra scelta risalta centrale: il giovane maschio, ancora attaccato alle vesti e ai fianchi della madre, deve da essa, dalla sua dolcezza e tenerezza, dalle sue cure femminee, essere separato, il precettore e guida deve essere uomo: l’educazione del maschio è questione essenzialmente virile. Anche in questo Batoni, che pure era pittore di modesta cultura letteraria, “di una incerta incolta semplicità” lo definiva Mengs, si ritrova in sintonia col più avanzato spirito del tempo (era Rousseau a dettare la necessità di un rapporto privilegiato ed esclusivo fra Émile e il precettore, in una solitudine senza divieti ma sottratta ai cattivi influssi, privilegiando l’atto sull’inefficace parola), e forse in questa direzione lo spinge un’occasione precisa, una motivazione concreta. Tre lettere (del 1, 18 e 29 aprile 1761, rese note da Copertini) dirette all’abate Frugoni segretario dell’Accademia parmense, provano che l’opera viene eseguita a Roma da Batoni, già nominato nel 1759 Accademico d’onore e corrispondente (mentre solo nel 1763 riceverà la stessa carica dall’Accademia Clementina di Bologna), su commissione della Corte ducale.

Un riferimento al Du Tillot, (“La ringrazio per che Ella si sia degnata di favorirmi presso Sua Eccellenza Du Tillot primo Ministro di S.A.R., e che abbia con piacere inteso sì il soggetto come l’ultimazione del quadro e de la solecita spedizione, di tutto peraltro la ringrazio di avermi messo in buona luce appresso tanto signore”, 18 aprile 1761), nonché l’ansia dimostrata dall’artista di corrispondere alle aspettative sue, e dello stesso Frugoni, mi fanno ritenere che alla base di tale committenza ci fosse un progetto, per così dire celebrativo, dell’illustre poeta e del colto ministro. Ma quale circostanza celebrare? Già dal 1758 Louise-Elisabeth aveva deciso, in consapevole opposizione ai gesuiti che, a Parma, allora gestivano il Collegio dei Nobili e avevano in pratica il monopolio dell’istruzione della giovane aristocrazia locale (cfr. lettera dell’Infanta, in Bédárida 1928b, ed. 1986, II, p. 385), di affidare l’educazione dell’erede al francese Etienne Bonnot de Condillac. Non stupisce certo che il francese fosse guardato con sospetto dai gesuiti: aveva infatti rinunciato alla laurea in Teologia e al sacerdozio, aveva collaborato all’Encyclopédie, era notoriamente legato al circolo dei philosophes; in ogni caso Condillac nel 1760 è ormai a Parma dove resterà fino al 1765, e preparerà nel 1772 la prima edizione del Cours d’études pour l’instruction du prince de Parme. Ferdinando, l’erede, era nato nel 1751, quindi, tra il ’60 e il ’61, gli anni in cui viene commissionata ed eseguita la nostra tela, aveva tra i nove e i dieci anni. Conviene ora tornare alla lettura dell’opera, confrontandola con altre due tele dello stesso soggetto prodotte dal Batoni in periodi diversi, secondo una consuetudine dell’artista che usava replicare, variandole o no, le proprie opere di successo, sia eseguendole personalmente sia affidandole, ma vendendole poi a minor prezzo, a qualche allievo, chiaro segno di una bottega modernamente organizzata e di notevole libertà mentale.

L’una, precedente alla nostra, firmata e datata 1746, proviene dalla collezione Buonvisi e si trova oggi agli Uffizi (cfr. Clarck 1985, n. 21), risulta di dimensioni leggermente maggiori soprattutto in verticale, concentra il tema sul Centauro e Achille (Teti non compare), e soprattutto l’eroe presenta le forme del giovane uomo, già oltre l’adolescenza. Come la nostra (di cui Clarck 1985 pubblica due disegni preparatori: D. 19, uno studio per il piccolo Achille e D. 69, schizzo per il gruppo di Teti col figlio) appartiene a un periodo in cui la produzione di Batoni, in competizione amichevole con quella di Mengs, è caratterizzata dalla netta prevalenza dei soggetti mitologici e letterari. Il suo linguaggio, evidentemente ispirato anche dall’insegnamento di Winckelmann allora potente ideologo del fare artistico a Roma, modula una personale formula d’elegante eclettismo classicista regolata da una misura esemplata sui grandi maestri del Rinascimento, Raffaello soprattutto ma si avvertono echi anche dei Carracci, del Domenichino, di Guido Reni e financo Botticelli, e declinata in delicate forme lucidamente precise, squisitamente rifinite, in cui il colore smaltato steso in trasparenti velature spicca per naturale freschezza, e calibrata intensità.

Mi pare si possa inoltre sottolineare nell’opera in questione un ulteriore elemento di compiacimento mimetico e cortigiano, nell’insistenza su una certa aria parmense, dalla grazia correggesca della figura e del volto di Teti, alla capricciosità parmigianinesca del fanciullo. Un lusinghiero, adulatorio ma implicito dunque sapiente e divertito, omaggio ai professori d’Accademia, che bisognava comunque tenersi buoni, e soprattutto ai ducali committenti. Che non faranno mancare prove ulteriori del loro favore: infatti nel 1777 al Batoni sarà commissionata dalla Corte di Parma una grande pala con la Predica del Battista per la chiesa di Sant’Antonio. L’ultima versione, commissionata nel 1768 da Caterina di Russia e oggi all’Ermitage (Clarck 1985, n. 340) è una grande tela, complessa e per vari aspetti più “francese”, più alla moda, quasi il doppio della nostra e ricca di un gruppo di figure assai folto, e ancora Achille è quasi adulto. Dunque la specificità del nostro quadro, che nella lettera citata Batoni sottolinea sostenendo il valore del suo sforzo “perché è differente da tutti gli altri”, mi sembra possa essere proprio quell’Achille bambino.

In conclusione: l’identificazione allegorica e metaforica “alta” (non avrebbe voluto ogni regnante al tempo partorire un Achille?), del decenne Ferdinando, affidato proprio allora al precettore Condillac/Chirone per farne un principe degno, illuminato, colto, virtuoso, eroico. Chi poi sarà Don Ferdinando è un’altra storia, ed è anche la storia dell’eterna discrasia fra l’identità ideale che sottende ogni progetto educativo, e l’identità reale di ogni singolo individuo. (L.V.)

Bibliografia
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Toschi 1825, n. 26, p. 9;
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Ceschi Lavagetto 1979, p. 89, fig. 65;
Clarck 1985, p. 33, pp. 279-280, fig. 215;
Barroero 1990, p. 616;
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