- Titolo: Sposalizio della Vergine
- Autore: Giovanni Venanzi
- Data: 1674
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 280 x 197
- Provenienza: Parma, chiesa di Santa Maria Bianca; in Galleria dal 1810
- Inventario: GN 129
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
“Ranuccio Farnese duca di Parma… Alla particolare devozione che ha sempre avuto ed ha per Noi Giovanni Venanzi da Pesaro Pittore trattenuto da molti anni dalla felice memoria del Sig. Principe Pietro nostro fratello corrisponde pienamento la gratitudine dell’animo nostro e la disposizione della nostra volontà.
In segno di che habbiamo risoluto di soddisfare alle di lui istanze col fargli spedire la presente nostra Patente, colla quale lo dichiariamo e caratterizziamo nel numero de’ nostri Pittori e vogliamo che goda e goder possa di quei Privilegi tutti, che godono e goder possono i nostri Servitori, che attualmente assistono al nostro servizio… In fede di che habbiamo fatta far la presente e sottoscritta di nostra mano… Questo dì 28 novembre 1678”. (Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti…, p. 302).
A fronte di questa indubbia attestazione di fama e prestigio pochissimo si conosce oggi della biografia di Giovanni Venanzi (cfr. Ricci 1896, p. 158; Quintavalle A.O. 1939, p. 282; Dizionario… 1976, p. 282; Mendogni 1993, pp. 104-107): si sa che nacque a Pesaro nel 1627 e che lì morì nel 1705, che giunse a Parma intorno al 1660, probabilmente chiamato dai padri teatini, e che eseguì numerose opere per le chiese legate a quell’Ordine o a quello dei carmelitani, che fu al servizio della corte sia a Parma che a Piacenza e attivo per i Meli-Lupi di Soragna. Poi null’altro, né sulla sua formazione (solo una tradizione non documentata lo vuole allievo di Cantarini), né sulla sua attività precedente e successiva il soggiorno a Parma, né su contatti con altri committenti in altre città. In un panorama documentario tanto lacunoso risultano quindi assai preziose la firma e la data – 1674 – apposte sul dipinto e la notizia certa circa la sua originaria collocazione, un altare laterale della distrutta chiesa di Santa Maria Bianca (Oddi XVII secolo; Nota… 1725; Ruta 1780). A questo proposito è utile ricordare che nel 1391 l’amministrazione dei beni dell’oratorio fu affidata “a quattro probi cittadini, i Rettori del Ceppo di Santa Maria Bianca, con l’obbligo precipuo di raccogliere elemosine allo scopo di erogarle per dotare il più che si potesse fanciulle povere che andavano a marito… Ma col tempo illanguidiva il fervore della copia delle offerte tanto che a fine si soppresse e non rimase che la memoria… dei Rettori del Ceppo…” (Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Materiale…, II, p. 24). È dunque ipotizzabile che nel XVII secolo, all’epoca del passaggio della chiesa ai padri carmelitani, si sia tentato di ridare impulso alla pratica dell’elemosina “pro nubende” e che a questo scopo sia stata commissionata a Venanzi una pala d’altare col matrimonio della Vergine nella quale inserire l’insolita, ma a questo punto pregnante, immagine del mendico.
Una sintetica ma puntuale analisi del dipinto si trova nei cataloghi di Ricci (1896) e Quintavalle (1939); in particolare quest’ultimo annota che “…vi è chiara la derivazione dal Bernabei, appesantita dall’opaco sfumato del Gatti, mentre la composizione è guercinesca (vedi ad esempio il dipinto di Bartolomeo Gennari nella Galleria di Modena)”. In precedenza Martini (1872) e Pigorini (1887), che evidentemente non avevano notato firma e data, avevano ricondotto l’opera a Pier Antonio Bernabei; curiosamente il primo stigmatizza come “disdicevolissima alla scena quest’ultima bizzarria” (il mendico seduto in primo piano), ossia quell’inserto linguistico più marcatamente naturalistico e guercinesco che avrebbe dovuto sconsigliare l’attribuzione a Bernabei.
Non v’è dubbio che nel nostro dipinto, come del resto in quelli ancora oggi visibili nella chiesa di Santa Cristina, il pittore pesarese utilizzi un vocabolario stilistico e compositivo ricco di reminiscenze sia correggesche che tardomanieriste. Non mancano, tuttavia, pacate note realistiche e accenti classicheggianti più “moderni” e aggiornati alle coeve esperienze bolognesi, che certamente contribuirono a determinare il successo di Venanzi tanto nel “mondano” ambiente di corte quanto in quello più severo dell’Ordine teatino o carmelitano.