- Titolo: Silvia e Aminta
- Autore: Francesco Scaramuzza
- Data: 1829
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: 200 x 262
- Provenienza: Parma, Accademia di Belle Arti, saggio di pensione inviato da Roma nel 1829
- Inventario: Inv. 90
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Ottocento a Parma
Nel dicembre del 1828 con una presa di posizione definitiva Scaramuzza chiedeva al Toschi un’eccezione al programma accademico prescritto: “I due saggi li farei d’invenzione, giacché non mi sento troppo disposto per reggere al lungo e schiavo lavoro di una copia”.
Il permesso gli fu concesso il 30 luglio 1829, insieme al gran premio triennale di pittura che aveva per argomento Il vecchio Dandolo alla presa di Costantinopoli, il pittore poteva sostituire un quadro di sua invenzione ai lavori richiesti dall’Accademia parmense nell’ultimo anno di permanenza a Roma. Sceglieva per la prima volta un soggetto letterario, Aminta, la favola pastorale del Tasso che narra l’amore del pastore Aminta per la ninfa Silvia, trionfante dopo il tentativo di suicidio del giovane.
La scena, ambientata in una valle dove scorre un fiume tra colline alberate, è immersa in una nebbiolina verdognola (accentuata dalla vernice stesa dal pittore per armonizzare i colori) che accresce il tono malinconico elegiaco insito nel tema e fa pensare a un’Arcadia padana, e di conseguenza fa ricordare che il dramma fu rappresentato per la prima volta nell’isoletta del Belvedere sul Po, luogo di delizie della Corte estense. L’azione che si svolge fra i protagonisti coincide con la rivelazione d’amore espressa dal bacio di Silvia in un momento estremo fra vita e morte. Aminta si era gettato da un dirupo ed era caduto sopra alcuni cespugli, la ninfa trovandolo “che parea ne gl’ultimi sospiri/esalar l’alma, in guisa di baccante/gridando e percotendosi il bel petto/lasciò cadersi in sù ’l giacente corpo,/e giunse viso a viso, e bocca a bocca/… poi si come ne gl’occhi avesse un fonte,/innaffiar cominciò co’l pianto suo/il colui freddo viso, e fu quell’acqua/di cotanta virtù, ch’egli rinvenne” (Tasso, Aminta, Ferrara 1581, pp. 83-84). Così congiunti per un tempo indefinibile “fatto certo ciascun de l’altrui vita”, Silvia e Aminta sembrano soli – lui ha gli occhi rivolti al cielo fra l’estasi e l’agonia – sono figure piccole, empiree, fatte di un’altra sostanza rispetto ai tre personaggi che le sovrastano, soprattutto i due pastori, vitali e sanguigni, realisticamente rappresentati.
Nel gruppo i personaggi sono disposti con naturalezza in una varietà di pose che va dall’inerzia languida del corpo abbandonato di Aminta all’energia dell’uomo maturo, il pastore Elpino, che sostenendolo quasi lo porge a Silvia e ha già deciso il da farsi: si capisce dallo scambio di sguardi con Dafne, che osserva commossa con un gesto ampio e sospeso, quasi di protezione. Prima che questa possa dire o fare alcunché, con consumata esperienza Elpino la zittisce, occorre che gli eventi si compiano e in fondo, appurato che Aminta è salvo, è bene che giaccia stordito ancora un poco, così che quel pianto d’amore si prolunghi. Dinnanzi al gruppo dei quattro personaggi il giovane Tirsi manifesta con gesto spontaneo e trepidante la sua meraviglia per come stanno andando le cose. Elpino, Dafne e Tirsi, che per il Tasso interpretano la malizia cortigiana, sono qui presentati come figure semplici e franche, sentimentalmente coinvolte nell’avvenimento. La scena induce così a prendere le parti degli innamorati respinti e pare quasi un ammonimento alle donne scontrose. Curiosa è la coincidenza di questo tema sentimentale con la vicenda biografica del pittore: proprio in quell’anno infatti si sposò e non è dato sapere se dopo peripezie analoghe.
L’opera si ricongiunge al filone arcadico settecentesco coltivato a Parma nell’arte e nella letteratura e per questo fu molto apprezzata nell’ambiente accademico legato alla gloriosa esperienza passata, sicuramente più per i caratteri plastico disegnativi che per i modi già moderni di inflessione romantica che Scaramuzza aveva assunto a Roma a contatto con la corrente purista. A Parma ne portò la sua versione neocorreggesca, qui espressa dalla luce calda che fluisce sulle forme precisandone la materia vitale, focalizzando i particolari e concentrandosi sulla chioma fluente di Silvia con bagliori dorati, o sulle guance infiammate, come dopo una corsa, di Tirsi e Dafne. Il racconto si colora dei riverberi dell’ambiente ed è nuovo lo studio degli effetti chiaroscurali portati sulle figure en plein air attraverso la mediazione della penombra verde e densa del luogo. L’argomento letterario era uno dei temi prediletti dal Movimento romano, in particolare si ricorda il nazareno Overbeck che illustrò episodi della Gerusalemme liberata sulle pareti di una stanza del Casino Massimo al Laterano.
Il commento divulgato dalla “Gazzetta di Parma” sanciva in sostanza il successo di Scaramuzza che, appena tornato da Roma, era pronto ad assumere incarichi pubblici. L’autore dell’articolo coglie le novità presenti nel dipinto e apprezza senza riserve proprio quelle modalità che si ritrovano teorizzate dal purista Pietro Selvatico (Sull’educazione del pittore storico odierno italiano, Padova 1842): scelta della più bella e più affettuosa parte del dramma, il momento definito “punto drammatico”; figure collocate senza affettazione e quindi composizione priva di artifizi; varietà d’espressione degli affetti sui volti dei personaggi; movenze naturali che palesano grandi passioni senza “convulsi moti del corpo”, come “quel metter che fa Silvia la manca sul capo d’Aminta stringendone la destra e gli sparsi capelli che fan pur conoscere come affannosa andasse cercando quel corpo”. L’articolo rileva infine “il drappeggiare con naturalezza e il colorire con verità, lucidezza e trasparenza”, concludendo che “Scaramuzza bene ha visato che il dipintore non deve aver per modello che la sola e scelta verità”. Come consigliava più tardi Selvatico: “meditate sul vero e anche sugli artisti che non ebbero convenzioni”.
Nel 1862 la tela, insieme ad altre opere di pittori parmensi, fu inviata dall’Accademia di Parma all’Esposizione Universale di Londra. Occasione importante per l’Italia di presentare, attraverso la produzione industriale e artistica, l’immagine di una nazione al giudizio internazionale, come dimostra il ricco catalogo stampato in tre lingue. Nel contempo l’ampio spazio riservato alle arti richiedeva di delineare la storia delle scuole locali negli ultimi cento anni, compito che fu assolto a Parma dal segretario dell’Accademia Pietro Martini con la sua Memoria, dove situa Scaramuzza (nel 1862 direttore dell’Accademia e professore di Pittura) fra il maestro Antonio Pasini e l’allievo Ignazio Affanni, precisando che l’Aminta fu scelta per l’Esposizione all’unanimità benché si trattasse di un’opera giovanile. Intanto, nella sezione pittura del padiglione inglese, dominavano i quadri dei preraffaelliti Hunt, Millais e Dyce.