L’opera del tutto singolare nella concezione stessa del ritratto cinquecentesco, deve essere collocata all’epoca del ritorno in patria di Parmigianino, dunque dopo il 1531 e ben distante dai ritratti degli Anni venti, rappresentati soprattutto dal cosiddetto Antiquario (Londra, National Gallery) o dal ritratto di Uomo con il libro di York.

Rispetto a questi, dove è ancora ben presente l’esempio della ritrattistica di Raffaello attraverso la dilatazione volumetrica, la penetrazione avvolgente in uno spazio reale, la ricercata plasticità che arrotonda i volumi, si accentuano invece i ricordi del sofisticato gioco psicologico, dell’artificio intellettualistico, della raffinatezza cromatica che si esercitava alla corte di Clemente VII nella prima metà degli Anni venti, prima del Sacco di Roma e che marcò fortemente la distanza dal classicismo aulico, raffaellesco, del primo decennio. L’inquietudine psicologica, la tensione rivelata dalla fissità dilatata degli sguardi, che costituiscono i caratteri di quei ritratti, nella Schiava turca diventano frementi: sono gli anni in cui Parmigianino si concentra in un dialogo sempre più solitario con lo stile.

In questo ritratto la delineazione grafica diviene predominante e l’interpretazione dello spazio rigorosamente teorica: non una proiezione tridimensionale ma piuttosto un’astrazione cromatica, una compatta cortina senza profondità distesa sul fondo. L’articolazione dello spazio attraverso la relazione tra le forme, che esclude la possibilità di rappresentazione prospettica a priori di uno spazio verosimile, è un concetto che si precisa proprio alla fine degli Anni venti, che furono i più intensi per la sua maturazione, sino a divenire un imprescindibile elemento di poetica: sul piano formale infatti è questo un dato immediatamente confermato dal progressivo ingigantirsi della scala dimensionale dei personaggi, dal loro isolarsi sul primo piano e, di conseguenza, dal progressivo ridursi del loro numero. Trattandosi in questo caso di un ritratto, naturalmente tali considerazioni sono scontate, ma se scorriamo il catalogo di Parmigianino a partire dagli anni 1525-26 ci rendiamo conto immediatamente di questa conquista da parte delle figure dell’intero spazio disponibile e della loro tendenza all’isolamento.

È quanto avviene, con procedimenti analoghi ma risultati diversi, in Bronzino che “edifica l’apoteosi della figura umana” (Strinati). In Parmigianino il progressivo ingrandirsi delle figure che va di pari passo con il diminuire del loro numero è un processo evidente e costante che può divenire traccia attendibile di un percorso stilistico: tutta l’attenzione si concentra su di esse, sul loro brivido inquieto, sul turbamento psicologico che serpeggia nei corpi richiusi nella corazza della suprema eleganza formale eliminando la distrazione di fondali o di paesaggi. Poiché al contrario di Bronzino, le cui figure sono gelidamente bloccate, quelle di Parmigianino sono immote ma nello stesso tempo frementi di inquietudine, assorte e insieme sorprese in un soprassalto, come nel compimento di una azione inspiegabile, che tale resta anche alla prova delle analisi iconografiche.

La Schiava turca ne è un esempio. Deve il suo nome come è noto al copricapo a forma di turbante. Va notato però che tale copricapo, il balzo a rete di fili d’oro, era acconciatura molto comune nell’Italia settentrionale intorno al 1530: eppure solo in Parmigianino ha provocato questo riferimento esotico. In realtà la strana denominazione del ritratto deriva non dai suoi attributi, ma piuttosto da un ermetismo sostanziale, impenetrabile perché frutto di una non più certa condizione esistenziale che rende ambigua la figura persino nei suoi caratteri di sesso e di età, in un artificio contenutistico che resiste all’interpretazione con l’inquietante sorriso: un sorriso fanciullesco che fa riconoscere nella Schiava turca lo stesso volto del putto di Amore che fabbrica l’arco e che con le sue smorfie ammiccanti ci rende complici del suo travestimento nelle fattezze di una giovane donna. Protetta all’interno della sua squisita ricercatezza formale questa figura ci impone il suo vero significato che è quello di porre la Bellezza quale valore assoluto e cognitivo, la cui ricerca – e conquista – è ottenuta solo con l’eliminazione di tutti gli altri valori possibili, storici, etici, religiosi, attraverso un processo estremo di sublimazione dei propri mezzi formali.

Scheda di Anna Coliva tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.