I due pannelli, probabili laterali di un trittico smembrato, sembrano appartenere al nucleo più antico di opere pervenute a don Ferdinando duca di Parma, che Tacoli Canacci descrive in una lettera all’Affò datata 1787 (Talignani 1986, p. 35).

Le due tavole non sono inventariate nel dettagliato Catalogo del 1790-1792 del marchese Tacoli Canacci, e quindi devono aver raggiunto prima di tale data la collezione ducale, forse con gli acquisti di fondi oro del 1786-87, durante il primo soggiorno del marchese in Toscana. Le due schiere di Santi e Sante sono rimaste nella residenza ducale di Colorno, senza essere documentate, fino al 19 ottobre 1821 quando Maria Luigia di Asburgo chiese al Toschi di compilare in una Nota de’ quadri l’elenco delle opere che desiderava trasferire all’Accademia di Belle Arti di Parma. È qui che al “n. 3356” vengono citati per la prima volta i “due quadri in tavola rappresentanti Santi Martiri”, come “Autore incognito”. Lo stesso Toschi ne attesta la presenza nella Regia Galleria nel 1825, classificandoli fra le tavole d’“Autori Ignoti” di “Antica Scuola Fiorentina”.

Il 29 gennaio 1851 Gaetano Schenoni, “Conservatore delle Ducali Mobiglia”, compila in una Nota dei quadri l’elenco di alcune delle opere cedute nel 1821 all’Accademia, e fa istanza per riaverle indietro al fine di arredare la “Casa di Sua Altezza Reale” Carlo III, nuovamente abitata dalla famiglia ducale dopo l’intermezzo lucchese. Fra i quadri che tornano nella residenza ducale sono citati (sempre col n. 3356) i “Due quadri rappresentanti Santi Martiri, d’Autore incerto”. Ma il 3 giugno 1865 lo stesso Schenoni deve compilare la Distinta dei mobili e oggetti che andavano riconsegnati alla Regia Galleria con l’avvento del Regno d’Italia, “nell’espressa riserva fatta dal ministero della casa di Sua Maestà che abbiano essi a considerarsi sempre di proprietà del demanio dello Stato”. E fra le opere che emigrano definitivamente verso la Galleria sono segnati, al “n. 3”, “due quadretti, in cui son figurati varii Santi” di “Ignoto. Scuola Antica”. Assegnati nei vecchi cataloghi della Galleria a “Scuola giottesca” (Martini 1875; Pigorini 1887), i due scomparti furono riferiti genericamente a “Scuola Toscana” dal Ricci (1896). Sorrentino (1931) li ascrive alla “maniera di Bernardo Daddi”, seguito dal Quintavalle (1937-38) che li precisa come di “seguace di Bernardo Daddi”. La questione attributiva è risolta da Longhi in favore del fiorentino Puccio di Simone, al quale lo studioso stava notoriamente dedicando alcuni studi per definirne lo sfuggente percorso artistico (Quintavalle 1939a). Lo studioso propone inoltre di identificare il pannello centrale del trittico smembrato nella Madonna in trono col Bambino della Galleria Stuard di Parma, ma cambia parere più tardi, riconoscendo quale pannello centrale l’Incoronazione della Vergine apparsa nel Catalogo della vendita Lurati del 1929 e acquistata dal conte Spada per un Orcagna (Quintavalle 1948a). L’immagine dell’Incoronazione della Vergine con otto angeli musicanti (cm  126 x 76), con l’indicazione “Collezione Conte Cenami-Spada” (ma ora purtroppo dispersa) è stata pubblicata dal Fremantle (1975) in un montaggio con ai lati i due frammenti parmensi (cfr. in basso, in questa pagina). Che Longhi avesse ragione nel ritenerla lo scomparto centrale dei due frammenti parmensi appare evidente proprio da questo montaggio, in cui si distingue chiaramente la precisa corrispondenza della carpenteria (con l’incorniciatura ad archetti) e l’omogeneità delle dimensioni dei tre frammenti. L’ipotesi che l’opera appartenga al catalogo di Puccio è avvalorata, inoltre, anche dal fatto che l’artista ne esegue anche una seconda versione più tarda (Gand, Musée des Beaux-Arts). Si deve del resto allo studioso la ricostruzione di questa personalità artistica, denominata dall’Offner (1947) Maestro dell’Altare di Fabriano (dal trittico per la chiesa di Fabriano, datato 1354, ora a Washington, nella collezione A.W. Mellon della National Gallery), ma da Longhi chiaramente identificato nel “Puccius Simonis Florentin” che firma la Madonna dell’umiltà con i santi Lorenzo, Onofrio, Giacomo maggiore, Bartolomeo proveniente dal convento di San Matteo ad Arcetri ora all’Accademia di Firenze (Longhi 1965b).

Il soggetto rappresentato in questo trittico, l’Incoronazione della Vergine con otto angeli alla quale rendono omaggio cori delle Vergini, martiri, Apostoli e profeti di cui Maria è regina, è un soggetto piuttosto comune in Firenze. Le due schiere di santi si dispongono in ordine su tre file omaggiando la Vergine coi loro attributi identificativi (alcuni curiosissimi, come l’agnellino in miniatura di sant’Agnese, o il pesante salterio di re Davide). La complessità iconografica dell’opera permette di ipotizzarne sia una committenza prestigiosa che la probabile collocazione sull’altare maggiore di una confraternita religiosa fiorentina (San Giovanni Battista, patrono di Firenze compare fra i santi in prima fila). Per la presenza delle due folte schiere di santi e sante (così simile iconograficamente a quelle del ben più tardo polittico Ognissanti di Giovanni da Milano) l’opera potrebbe provenire dalla più antica confraternita (l’unica fondata nel ’300) legata alla chiesa di Ognissanti, quella intitolata alla Vergine Maria, la cui data di fondazione risale all’11 ottobre 1336 (Henderson 1994), una data che potrebbe costituire un prezioso termine post quem per il trittico se si trovassero dei riferimenti più precisi all’opera negli elenchi delle vendite all’incanto del periodo leopoldino. La vendita del trittico al Tacoli non trova difatti riscontro nell’elenco degli oggetti d’arte dispersi durante le soppressioni leopoldine compilato da Innocenti (1992).

Il fiorentino Puccio di Simone si doveva essere formato all’ombra del maturo Maso di Banco, attivo, entro il 1335, alla cappella Bardi di Vernio in Santa Croce (Bartalini 1995, p. 21), divenendo uno dei suoi “moltissimi discepoli, tutti peritissimi maestri” di ghibertiana memoria.

La cromia luminosa, l’impostazione solenne delle due schiere di santi, il ritmo processionale che dirige gli occhi delle figure facendoli convergere verso la perduta pala centrale, ricordano da vicino la pacata lentezza e la gravità dei personaggi delle Storie di san Silvestro e sono un chiaro segno di omaggio a Maso. Allo stesso tempo la grazia profana, il lusso e gli scolli generosi delle Sante vergini ci indicano che in Firenze era già visibile qualche capolavoro di Giovanni da Milano.

Nella pala di Washington, datata 1354, Puccio cita puntualmente il contemporaneo polittico di Prato di Giovanni dimostrando di essere aggiornatissimo sulle opere del milanese. Nei frammenti parmensi, il ritmo profano della composizione e la collocazione dei santi in un preciso rapporto spaziale ricordano, seppure in fieri, certe soluzioni adottate nel polittico di Prato, dimostrando che essi non possono essere antecedenti all’arrivo a Firenze di Giovanni da Milano, con il quale Puccio stabilisce immediatamente un intenso dialogo.

Punto di riferimento sicuro per gli scomparti parmensi sembra essere la giovanile Madonna dell’umiltà dell’Accademia di Firenze, di cui cita il San Giacomo maggiore appoggiato al bastone da pellegrino.

Il trittico sembra quindi essere stato eseguito poco dopo il 1346, anno cruciale per Firenze e momento di svolta nella carriera di Puccio: è il momento in cui il pittore si immatricola all’Arte dei Medici e Speziali; in cui Johannes Jacobi de Commo è documentato a Firenze (in una lista della stessa Arte) e in cui giunge in città il fabrianese Allegretto Nuzi, col quale Puccio stringerà un forte sodalizio. È l’anno in cui, inoltre, Puccio acquista una certa fama oltre i confini di Firenze se nel 1347 il suo nome sarà presente in una lista di artisti fiorentini ritenuti degni di eseguire un’opera nella chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia.

Il trittico smembrato documenta i primissimi influssi su Puccio di Giovanni da Milano, la grande personalità che più tardi, dopo la metà del secolo, diventerà il suo principale interlocutore e punto di riferimento. Pur evitando accuratamente di coglierne le pose preziose delle figure femminili, gli sguardi in tralice, l’aria misteriosa e gli abiti all’ultima moda (con la cintura abbassata sui fianchi), il giovane Puccio rimane affascinato dall’aria profana, solare della pittura di Giovanni, infondendola in un’umanità più feriale, sorridente e accostante, la cui compattezza dei volumi e la piena stesura cromatica tradiscono la cultura profondamente masesca dell’artista.

Scheda di Silvia Giorgi tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.