Compare segnato al n. 20 dell’elenco dei quadri offerti e poi acquistati dal marchese Dalla Rosa-Prati con corretta identificazione iconografica e attributiva, anche se non manca chi fra gli accademici avanza qualche dubbio sull’autografia, tanto da abbassare il prezzo d’acquisto a franchi 400 rispetto ai 1000 richiesti.

Forse sull’onda di questo furbesco dubbio il Ricci che, nel rispetto delle linee preferenziali ottocentesche non sembra comprendere a fondo la pittura barocca, se la cava con un commento breve e singolare “eccessivo il contrasto tra ombre e luci, ma eseguito bravamente”, mentre il Quintavalle apprezza i forti contrasti chiaroscurali di influenza caravaggesca, assegnando il dipinto al 1616 circa e considerandolo una replica dell’opera conservata nella Galleria Corsini di Roma, ormai chiaramente considerata copia più tarda (Salerno 1958, p. 53; Mahon 1957 la attribuiva a Badalocchio), mentre non si rintraccia l’ulteriore versione citata nel Museo Civico di Padova.

Il Salerno la assegna al periodo parmense (1611) mettendo in risalto la purezza lineare e i valori schedoniani che pervadono il dipinto, mentre il Bernini la posticipa agli anni 1515-16, accomunandola a un gruppo di opere anticipatrici della cappella Buongiovanni nella chiesa di Sant’Agostino a Roma, frutto di una forte contaminatio fra le esperienze parmensi e bolognesi espletate su Schedoni, Annibale e Ludovico Carracci e i caravaggeschi operanti a Roma quali Orazio Gentileschi, Borgianni, Saraceni. Lo Schleier l’assegna all’inizio della fase “borgionnesca”, durata oltre un quinquennio (1613-1619) del secondo prolungato soggiorno romano che va dal 1612 al 1633. Datazione pienamente accettabile, per confermare la portata innovatrice su di lui del lume caravaggesco che lo spinge alla padronanza di uno spazio interno e all’alitare di una luce fioca che si spande in diagonale colpendo il petto della santa, trasformandola in persona viva colta nella piena accettazione del martirio, sensuale nelle vesti discinte come la Cleopatra di Cagnacci, ma priva di qualsiasi artificio seduttivo se si esclude il meraviglioso profilo e l’elaborata acconciatura a trecce.

Si serve di un petto ferito per mostrare un suo ideale di bellezza, su cui palpitano appena le dita di san Pietro intrise nell’unguento risanatore. Un circuitare di mani, un soffermarsi di sguardi sulla ferita, un intento consolatorio che rivelano un Lanfranco dalla regia essenziale ma toccante. Una sottile ma intensa interpretazione del tema, dal rituale obbligatorio nei ritmi, che si inserisce su una fragile essenziale architettura, richiamando una verità inusuale nei dipinti pienamente religiosi, mentre qui sembra proporre un sovrapposto significato sacro-profano come denunciano le larghe ali che si innestano posticce sul corpo di un efebo, ma anche di un giovane modello, mentre il san Pietro in controluce rievoca ancora i modi schedoniani.

Sant’Agata sembra l’evoluzione, in chiave religiosa, dell’Angelica in Angelica e Medoro (1603-1604) della collezione Gasparrini di Roma, ancor risucchiata dai modi del Correggio (cfr. Schleier 1964b, pp. 3-15, figg. 1-2): è tutta presa dalla sua ritrovata bellezza, dalla pelle morbida e delicata e come nell’eroina ariostea “si loda la vergine che schifa gli amanti e per onestà nasconde la sua bellezza”.

Protagonista del quadro è, infatti, una giovane martire siciliana (catanese o palermitana) che visse, secondo i testi più attendibili, nella prima metà del III secolo, e fu sottoposta al martirio durante la persecuzione di Decio, anche se nel De Laudibus virgintatis di Adelmo si dice che sant’Agata sarebbe stata vittima di Diocleziano all’inizio del IV secolo. Secondo la Passio Sanctae Agathae, la santa di nobile e ricca famiglia aveva fatto voto di perpetua verginità. Dei tanti episodi della sua vita illustrati in pittura, Lanfranco sceglie il più sobrio: il momento, cioè, successivo al supplizio infertole da Quintiniano che, dopo averla sottoposta a dure prove, ordinò che le fossero amputate le mammelle. Dopo l’esecuzione, ricondotta in carcere, le apparve san Pietro che risanò, miracolosamente, le sue ferite. La “curatio mamillarum” avviene di notte, quando san Pietro, accompagnato da un angelo che illumina il percorso con una torcia, va a visitarla e applica con mano tremula sulla ferita insanguinata che si rimargina un unguento e il suo seno riprende pian piano le sue forme (Bibliotheca Sanctorum, I, 1983, pp. 320-336). Con questa interpretazione il Lanfranco aggiunge al suo corpus, una cifra stilistica inedita che lo attesta pittore intenso, dalla narrativa sciolta anche nel piccolo formato, dove la ricercatezza classicista pervenutagli da Agostino e Annibale Carracci si coniuga e lascia il posto a una accurata ricerca luministica di matrice correggesca e schedoniana probabilmente esibita per un committente ancora sconosciuto e con una non pubblica funzione. L’opera si addice alla sperimentazione di quella “mozione degli affetti”, di quella narrativa sensitiva, con cui si misurerà con successo scandagliando piuttosto il tema dell’intimità e della risoluzione miracolistica in alternativa alle scene corrusche e magniloquenti esibite soprattutto nei cicli affrescati.

Bibliografia
Inventario… 1832-1851, n. 20;
Martini 1875, p. 5;
Ricci 1896, p. 151;
Quintavalle A.O. 1939, p. 66;
Salerno 1958, p. 53;
Cavalli, in Maestri… 1959, p. 225;
Ghidiglia Quintavalle 1965b, p. 27;
Moir 1967, I, pp. 104-124 e 241-243, II p. 82;
Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 152;
Bernini 1985, pp. 41-42;
Fornari Schianchi 1997b, pp. 116-117
Restauri
1938 (A. Verri);
1948;
1957-58
Mostre
Parma 1948;
Bologna 1959;
Santiago del Cile-Buenos Aires-Conception-Caracas 1992;
Padova 1997-98
Scheda di Lucia Fornari Schianchi, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.