Il dipinto fu sicuramente “tagliato” sui lati (dove sono visibili parti di figure) e forse anche in alto, dove la luce fra le nuvole poteva contenere un’apparizione angelica.

Ambientato in un ampio paesaggio, l’episodio riassume i momenti più significativi della leggenda di santa Caterina di Alessandria. A destra, uno dei tori sacrificati agli dei per volere dell’imperatore; sull’altro lato, Caterina liberata dalla tortura della ruota, che si spezza e abbatte i soldati per intercessione divina. Al centro, probabilmente Porfirio, l’ufficiale romano che le parole di Caterina convertirono, portandolo poi al martirio.

Giunta nel 1834 dalla Galleria Sanvitale, la tavola è giudicata dal Ricci probabile copia di un originale legato all’ambito di Giulio Romano. Quintavalle (1939, e poi 1948) ne riconosceva pure gli echi raffaelleschi, ricordandone il precedente collegamento con la cultura romana.

Un esame della tavola – che riveste significativo interesse malgrado alcune “cadute” che hanno fatto pensare si trattasse di una copia – ci suggerisce di riconoscere, accanto alle indubbie suggestioni di un classicismo riletto però attraverso la complessa cultura romana di metà ’500, la presenza di motivi fortemente ripresi nella stessa Emilia in un momento più avanzato, traduzione e rilettura di quegli illustri modelli. Non ci pare infatti di riscontrare qui ragioni di stile che possano suggerire date arretrate, anzi pare plausibile scorgervi un senso della natura che vuole collegare alla “maniera” i primi tentativi di una nuova visione: una visione che va “verso” i Carracci e forse già li conosce. Certi elementi, specie nel paesaggio, sembrano incontrare il paesaggismo “romano” di Annibale accanto a particolari fiammingheggianti che potrebbero – perché no – rievocare le ricerche di un Soens nel suo più avanzato momento parmense.

Traduzione in forme classiche di ricordi parmigianineschi appare la nobile figura della santa, che non è figurativamente protagonista della scena. Anche questo moltiplicare i personaggi rappresentativi e i punti di interesse del quadro, unendo momenti diversi di un episodio sullo stesso palcoscenico e suggerendone teatralmente la successione, ci porta ben avanti – ci sembra – nella seconda metà del secolo.

Gli stessi nudi caduti, pur “disegnati” secondo scorci dettati dalla tradizione della “maniera”, sono accarezzati da un lume che pure ci indica le tracce di un diverso contatto col “naturale”.

E i piccoli personaggi dispersi nel paesaggio, a suggerire le fasi di quella storia che in primo piano diviene spettacolo, ci avvicinano anch’essi più ai primi esiti degli Incamminati – e dei pittori emiliani operanti negli ultimi decenni del ’500 se non addirittura all’alba del nuovo secolo – che non ai modelli raffaelleschi del più nobile Giulio Romano, o alla “maniera”.

Scheda di Rosa D’Amico tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.