- Titolo: San Sebastiano
- Autore: Josaphat Araldi
- Data: Primo quarto del XVI secolo
- Tecnica: Olio su tavola
- Dimensioni: cm 87 x 57,8
- Provenienza: Parma, collezione Sanvitale, 1834
- Inventario: GN203
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Arte a Parma 1300-1400
La critica ha sempre guardato con ammirazione questo quadro, segnato al n. 23 dell’elenco della vendita Sanvitale del 1830, sottolineandone la purezza e l’eccentricità, senza potersi spingere a dettagliati e più estesi rimandi per la mancanza di confronti con altre opere dello stesso maestro. Resta, infatti, un unicum che attesta stile e presenza dell’artista a Parma entro il primo quarto del XVI secolo.
Il suo nome viene ricordato, per ora, solo da quattro fonti documentarie: nel Liber seu Quinternus equalantiae lanciarum… iterum editus e anno 1520, conservato nell’Archivio Comunale di Parma, dove viene nominato “pictor viciniae sancti Benedicti” poi ribadito in ulteriori citazioni (ASP, Rogiti di P.M. Prati) alle date 16 giugno 1518 e 1 dicembre 1520 che lo rivelano anche figlio del defunto Giovanni Antonio Araldi; nel 1519 il suo nome è citato unitamente a quello di ignote personalità in viaggio verso Montechiarugolo. Citazione che ha permesso alla Ghidiglia di avanzare un’ipotesi di riconoscimento della sua mano in un non meglio identificato affresco nel cortile del castello. Nella tavola sembrano combinarsi, con equilibrato dosaggio, elementi nordici, veneti e di raffaellismo emiliano, rintracciabili nello sfondo, nel perizoma a spigolo vivo, nella serenità del viso femmineo e nella compostezza dell’adolescenziale corpo apollineo, che riportano anche a certi schemi di Lorenzo Costa e Francesco Francia. E così occorre scorrere con attenzione la superficie smaltata del quadro per rintracciare tecnica e stile fino a poter ricomporre alcune possibili tracce utili per delineare i crediti visivi che alimentano il fare del pittore, il quale, in mancanza di altri dipinti noti, sembra esprimere in una sola opera, e di grande qualità, il suo magistero, trovando un accordo totale tra natura e figura, tra paesaggio, luce e martirio che riportano ai nomi di Giovanni Bellini, Carpaccio, Bartolomeo Montagna, Bartolomeo Vivarini e Cima.
I collegamenti con questi artisti non si rintracciano in precisi tracciati figurativi, ma piuttosto nell’assenso alla loro fulgida capacità descrittiva e alla consonante opportunità di esibire un minuzioso mondo naturalistico. Ekserdjian ne considera prototipo il quadro di Marco Basaiti con lo stesso soggetto (Roma, Galleria Doria Pamphilj) di cui un’altra versione era conservata al Kaiser Friedrich Museum di Berlino, distrutta nel 1945 (cfr. Heinemann 1962, I, p. 298) a loro volta, forse, derivati da un originale di Giovanni Bellini. A queste pertinenti considerazioni e con lo stesso metodo ci sembra di poter aggiungere un più vasto mondo di riferimento, non conoscendo gli spostamenti eventuali dell’artista, per esempio verso il Mantegna, di cui circolavano incisioni, per quel panneggio geometrico e tagliente dai moduli scultorei che circola anche a Ferrara nella cerchia di derivazioni robertiana, in artisti come Domenico Panetti e Michele Coltellini. Per il viso del santo che l’Araldi velerà di dolcezza e di mistica pace, per la posa con il braccio legato al ramo e per il molle rallentamento delle gambe si può ricorrere al Francia dell’affollata pala con la Madonna in trono e santi, ora nella Pinacoteca di Bologna, commessagli da Bartolomeo Filippini (1494) o al grande quadro per la chiesa di San Martino maggiore (post 1506) dove si ritrovano una posa analoga e un calligrafico girar di pieghe, esempio che sarà adottato anche da Timoteo Viti nel dipinto con l’Annunciazione (1520) ora a Brera, ma forse eseguito per la chiesa urbinate di San Bernardino. Tutto questo per segnalare quanto vasta fosse la diffusione dei modelli primari e quanto attente e rigorose, ma anche basate sul libero ripensamento, le loro reinterpretazioni.
L’Araldi pur rimanendo nel solco del tracciato qui ricostruito adotta, poi, una netta partitura fra luce e ombra, scandita dalla collocazione centrale del santo dalla posa ancheggiante e colpito da una sola freccia, sulla fronte immacolata, che consente al viso i sereni lineamenti dell’estasi più che le sofferenti smorfie del martirio. Appartengono al primo piano, stagliandosi sulla luminosità del cielo e dell’acqua, il grappolo di foglie rigogliose che spuntano dal ramo rinsecchito e il voluminoso panneggio ripiegato e accartocciato come nelle opere di Jacopo de Barbari, nelle xilografie di Dürer e nelle diffuse incisioni di Marcantonio Raimondi. Nel tappeto erboso, che spunta su multipli piani rocciosi, incunea poi compatti cuscinetti di sassifraghe e di scorzenere da cui emergono steli con fiori delicati, trifogli, piantaggine e felcette: quella flora, insomma, che si localizza nelle nicchie fresche delle rocce o nei luoghi incolti, aridi, pietrosi, accompagnata da una quaglia e da un cardellino, così frequenti nelle nostre zone, come le fagacee di cui spunta un ramo ai piedi dell’albero.
Il microcosmo naturale fa da sfondo poetico a un martirio senza sangue, preannunciando un ritorno nell’armonia panteistica del san Sebastiano, la guardia pretoriana vissuta fra III e IV secolo, che, dopo aver goduto della fiducia di Diocleziano e Massimiano, per la fede manifesta viene sottoposto al supplizio delle frecce, uscendone indenne (cfr. Gordini 1982, ad vocem), e meritandosi così il ruolo taumaturgico di protettore contro le epidemie. L’Araldi, di cui non si possono controllare eventuali varianti di stile e di gusto, si inserisce, con quest’opera, fra i contemporanei maestri parmensi quale portatore di una linea isolata che punta, insieme, sulla struttura solenne, classica e cristallina del disegno e della materia lucente, adottate anche dal Marmitta nella pala di San Quintino, ora al Louvre, senza rinunciare a una organizzata estensione dello sfondo e a una esibizione minuziosa e ordinata della natura inondata di luce secondo un idilliaco sincretismo privo di aggressività figurativa che si basa sulle linee teoriche espresse dagli umanisti tardoquattrocenteschi che proclamavano l’integrità dell’uomo e della natura, in quanto opera di Dio.
Iscrizioni: sul cartellino a sinistra, Josaphat Araldis opus