Questa tavola fu eseguita su committenza di Alfonso I d’Este in stretta concordanza con la Natività alla presenza di tre gentiluomini conservata presso la Galleria Estense di Modena. Il duca Alfonso intese infatti celebrare il recupero del dominio su Modena e Reggio Emilia, perduto in favore del papa Giulio II nel 1510, con la destinazione di due importanti opere votive da esporre nel Duomo delle due rispettive città.

Il carattere di entrambe è infatti del tutto particolare, con probabili allusioni a membri della famiglia nel dipinto modenese (si sono voluti infatti interpretare i personaggi del Presepe in Alfonso, Laura Dianti e nei figli avuti dal duca da Lucrezia Borgia) e al trionfo del rinnovato potere ducale nel secondo.

I documenti pubblicati dal Campori (1866), integrati da quelli scoperti da Mezzetti (1965), permettono di datare l’opera tra la fine del 1533 e l’inizio dell’anno successivo: i pagamenti furono intestati al Dosso come per la pala compagna, per la quale però il cronista modenese Lancillotti fa riferimento, al momento della sua collocazione avvenuta nel 1536, al fratello Battista (ms. sec. XVI, ed. 1862, 1884, V, p. 195). Più recentemente Monducci (1985) ha puntualizzato le coordinate di origine e di destinazione dei due dipinti attraverso nuove acquisizioni documentarie spaziando ulteriormente con notizie sulle ancone e sulla loro doratura, dovute rispettivamente a “Gabriele depintore” (da riconoscere presumibilmente in Gabriele Bocaccioli, collaboratore riconosciuto dei Dossi e attivo come decoratore raffinato anche in Castello) e “m.° Battistino batti oro” (per un riassunto della complessa vicenda si vedano le schede nn. 485-486 in Ballarin 1995a). Ascritte dalla critica concordemente alla collaborazione dei due fratelli, con una supremazia di Battista soprattutto per il paesaggio, si tratta in realtà, per il caso di Parma, di opera alquanto complessa nella quale compaiono diversi pennelli oggi meglio precisabili alla luce delle comparazioni condotte con altre pale dossesche di tarda datazione.

Insieme con l’ancona detta la Concezione (perduta sotto i bombardamenti di Dresda), eseguita nel 1527 per il Duomo di Modena, le due pale in questione formano un gruppo ben caratterizzato di dipinti d’altare nei quali l’assieme risulta per giustapposizione di brani ben distinguibili strutturalmente, tanto in funzione gerarchica quanto di figure in rapporto al paesaggio. Si è perduta la stabilità del sistema, quel cosmo pure a volte eccentrico del Dosso, ma derivato concettualmente dai termini classici che sosteneva ancora trionfalmente le opere di grande dimensione del secondo decennio del secolo; con il declino fisico di Alfonso I e con la crisi politica del regno coincide un mutamento depressivo del comporre che indirizza il maestro a miscelare le immagini senza amalgamarle. Davvero la scuola prende il sopravvento, insieme alla furia di traguardare più imprese possibili nelle “delizie” di corte che si moltiplicano nel giro di pochi anni, dentro e fuori Ferrara.

Difficile a questo punto parlare di narrazioni sacre o di sacre conversazioni tanto la scansione tradizionale delle grandi opere è completamente abbandonata; la costruzione è ormai per piani sovrapposti e come tripartita sulla tavola, con un centro che passa ricorrentemente a distinguere situazioni non comunicanti. La figura umana è contornata o stagliata sull’ambiente naturalistico circostante che assumerà un’incidenza ancora maggiore nel San Michele arcangelo e nel San Giorgio oggi a Dresda, nei quali la monumentalità dei personaggi è assorbita entro il panorama sconfinato di incantevoli artifici acquorei.

Per questi aspetti e per altre caratteristiche grafiche o fisionomiche che tendono ad appiattire i lineamenti, o ancora per stesura del colore, siamo vicini in questo caso a personalità di più modesto talento, distinguibile nella Vergine assunta con gloria di angeli, negli Apostoli al sepolcro e nel paesaggio, assimilabili con buon margine di certezza all’autore di alcune parti della pala detta dei Confratelli della Neve (Modena, Galleria Estense), per certo ritenuta dal casato d’Este un quadro di famiglia a sfondo liturgico-votivo, constatate le sue successive ubicazioni all’interno delle dimore modenesi. Non vi è dubbio che nell’esempio parmense il paesaggio è descritto con consumato mestiere, come l’erbario in primo piano dove più evidenti sono i caratteri di Battista che compare nella figura dell’arcangelo giustiziere, assai vicino alla Madonna della pala dell’Accademia dei Concordi di Rovigo.

L’intervento più energico ed efficace è invece ravvisabile nel vinto demonio, in quel volto aggressivo e grottesco che irride ancora la divinità benefica, in quella coda incendiata di giallo sulla punta, nell’abnormità delle estremità palmate da “monstrum naturae”. L’idea è singolare, da Dosso appunto, nel segno di una ribellione che è propria al suo genio inquieto e scostante.

Iscrizioni: in basso a sinistra, “olomoy”, scritta ancora letta dal Testi (1907) e da Quintavalle (1939); dopo l’ultimo restauro sono leggibili solo le lettere m…o…u…

Scheda di Jadranka Bentini tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.