Le due tavole sono ricordate ai numeri 79 e 80 del Catalogo steso nel 1790-1792 dal Tacoli Canacci per Carlo IV di Spagna come opere del pittore “Jacopo di Pratovecchio nel Casentino” (nome riportato anche sul retro dei dipinti, al di sotto di quella iscrizione “Etruria pittrice”, che si trova spesso nelle opere appartenute alla collezione del marchese).

L’attribuzione al giottesco Jacopo del Casentino, ripetuta anche nelle guide ottocentesche, fu giustamente scartata dal Quintavalle (1939a), che, pur osservando nelle due tavole l’influsso di Domenico Veneziano e del Gozzoli degli affreschi di Montefalco, propose comunque di riconoscervi la mano di un anonimo umbro-marchigiano del XV secolo. A tale proposito, ma solo molti anni dopo l’intervento del Quintavalle, il Todini (1989) ha creduto di poter riferire i due santi della Galleria di Parma al corpus di un pittore umbro designato con il nome di “Espressionista gozzolesco”. Si tratterebbe – secondo il Todini – dello stesso autore di alcuni affreschi nelle chiese di San Francesco e Sant’Agostino a Montefalco che, in precedenza, il Toscano (1983-84, pp. 62-75) aveva invece suggerito di ricondurre allo spoletino Jacopo Vincioli.

Recentemente il Fratini (1996) ha comunque escluso le tavole parmensi dal corpus dell’“Espressionista gozzolesco”, pur confermando la differenza tra quest’ultimo anonimo e il gruppo “Jacopo Vincioli”.

Per quanto riguarda l’originale uso dei dipinti in esame, si può pensare a un loro impiego quali laterali di un trittico o di un polittico, come sembra di capire sia dalle dimensioni piuttosto grandi, che dalla traccia di qualcosa di simile a una cornice o a una carpenteria ben evidente agli estremi delle due tavole. È importante osservare che in un polittico era possibile associare come laterali alla pala centrale, oltre che immagini di santi a figura intera, anche vere e proprie scene. Un esempio relativo alla presenza di due sante su fondo oro accanto a una scena delle Stimmate di san Francesco, eseguite per formare un laterale di un polittico, si ha in un’opera di Bicci di Lorenzo (si veda la riproduzione in Gold Backs… 1996, p. 106).

Le due tavole, sia per le qualità stilistiche che rimandano alla “pittura di luce” di Domenico Veneziano, Giovanni di Francesco e Benozzo Gozzoli, sia per la provenienza dalla collezione del marchese Tacoli Canacci (che sappiamo avere acquistato molte delle sue opere a Firenze prima del 1792, in seguito alle soppressioni ordinate dal granduca Pietro Leopoldo), sono ragionevolmente riconducibili all’ambiente fiorentino della metà del ’400.

In questo senso ritengo di poter accogliere il suggerimento di Luciano Bellosi – che ringrazio – in favore di un’attribuzione delle due scene a Fra Diamante; tesi che appare confermata dal convincente confronto tra il volto dai tratti affilati del San Francesco e quello dell’angelo del tabernacolo di Santa Cristina a Pimonte, entrambi caratterizzati dal naso appuntito e dalla mascella arrotondata, sottolineata con una precisa linea luminosa che contrasta con le parti in ombra della guancia e del collo.

Premesso che lo stato di conservazione non è dei migliori e che la superficie pittorica appare notevolmente rovinata, i due dipinti, a parte le qualità luministiche ispirate a Domenico Veneziano, rivelano la conoscenza del linguaggio di Filippo Lippi, nelle modalità di esecuzione sia del panneggio, dalle pieghe gonfie e isolate, sia delle figure levigate e quasi prive di muscolatura. Non mancano fra l’altro somiglianze con certi brani eseguiti da Fra Diamante all’interno del ciclo lippesco pratese. In particolare il volto del San Gerolamo ricorda il barbuto San Giovanni Gualberto e il San Francesco la figura con le mani giunte della Disputa di santo Stefano, con la quale condivide la realizzazione della canna nasale sottolineata dalla luce.

Il San Gerolamo, raffigurato con in mano la pietra usata per percuotersi il petto, si distingue per la carica espressiva del volto, l’esecuzione non troppo accurata dell’anatomia, l’uso di un’aureola punzonata in scorcio e il paesaggio lunare, al di sopra della grotta, caratterizzato dagli alberelli e dalle rocce taglienti simili a quelle che si trovano in primo piano nella Natività di Spoleto, dipinte però con un colore rosa tenue.

Nell’altra tavola invece, da un lato troviamo la figura di Frate Leone vista da dietro e posta in un ottimo scorcio, mentre dall’altro il San Francesco (con il nimbo preziosamente punzonato e con inciso il nome) presenta una sgradevole rigidezza nella parte inferiore, dove le gambe risultano sproporzionate rispetto al resto del corpo. Lo sfondo è ancora una volta luminosissimo, soprattutto nella chiesetta bianca in pieno sole e in quegli alberelli tipici della pittura fiorentina lippesca, posti in mezzo a delle rocce così appuntite da ricordare quelle delle scene della predella della pala di Santa Lucia de’ Magnoli di Domenico Veneziano.

Queste caratteristiche fanno pensare a una datazione dei due laterali piuttosto precoce nell’attività di Fra Diamante, probabilmente contemporanea alla sua collaborazione per il Duomo di Prato (1454-1466), in un momento ancora legato alla “pittura di luce” della metà del secolo e privo degli aspetti verrocchieschi e botticelliani che compaiono nella Natività del Louvre. Ciò verrebbe a confermare l’ipotesi che Fra Diamante, all’interno della bottega lippesca, abbia rappresentato il legame con la cultura luminosa di Giovanni di Francesco e Domenico Veneziano (Bellosi 1990, p. 42).

Per quanto riguarda il rapporto delle due tavole con la pittura umbra, è evidente che il nesso deve essere individuato nel cantiere del Duomo di Spoleto, di cui Fra Diamante assunse la direzione nel 1469, alla morte del Lippi. Il ciclo spoletino infatti riscosse un notevole successo, propagandando le novità della pittura fiorentina tra i pittori locali; tra questi vi era Jacopo Vincioli, che, dopo avere conosciuto l’arte del Gozzoli a Montefalco, nel 1467-68 ebbe alcuni contatti, proprio a Spoleto, con Filippo Lippi.

Scheda di Gabriele Fattorini tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.