Il San Gerolamo “tutto raccolto nella contemplazione del Crocifisso che tiene stretto in una mano, mentre con l’altra traccia sul libro aperto, cui fa da leggio un teschio, la fiamma delle sue meditazioni” (Ghidiglia Quintavalle 1934), è sempre stato concordemente ritenuto dalla storiografia antica, un’opera di rilievo nella produzione pittorica del Guercino.

Nel nostro secolo l’esegesi critica della Ghidiglia Quintavalle (1934) dava risalto al persistere del “palpito” giovanile, ravvisabile nei toni caldi e bassi del rosso porpora e nella velatura ombrosa dell’orbita oculare del santo, ma sottolineava altresì una ricerca di minuto realismo che, a suo avviso, rispecchiava lo stile del maestro dopo il soggiorno romano (1621-1623) durante il quale, secondo Quintavalle (1939 e 1948b), restò affascinato più che dalla lezione del Caravaggio, dal “realismo ad oltranza” di Ribera. Dal punto di vista stilistico i due studiosi istituiscono una serie di raffronti con il San Pietro della Galleria Palatina, eseguito intorno al 1623-24, e col San Matteo di Dresda, che però è un quadro precoce databile al 1615 circa, concentrando il loro interesse sulla “tipologia di vecchio dal naso grifagno, calvo a somma della testa incorniciata di folta barba”, ma anche sulla “robusta consistenza delle mani” e sul “caldo tono del manto”.

Dalla mostra parmense del 1948, in cui l’opera fu esposta insieme alla Maddalena come originale del maestro, ad oggi, è stato considerevolmente approfondito lo studio del Guercino; soprattutto grazie alle ricerche di Sir Denis Mahon che ha messo in luce, con mirabile chiarezza e attraverso la ricostruzione scrupolosa del catalogo dell’artista, le varie fasi della sua operatività, dai primi anni centesi all’insediamento nel capoluogo felsineo (1642) dove va a ricoprire il ruolo già appartenuto a Guido Reni. La tela parmense, oltre a non presentare lo spessore qualitativo di un’opera originale, va anche fatta slittare in avanti rispetto alle proposte cronologiche avanzate nella prima metà del nostro secolo.

L’erudito dottore della chiesa, seduto presso il leggio dov’è intento a scrivere, dovrebbe rappresentare la replica di uno stesso soggetto licenziato da Guercino nel corso degli Anni quaranta. L’esecuzione potrebbe essere opera di un assiduo frequentatore dei modi del pittore, forse estraneo al suo immediato entourage, ma attento a riprodurne i caratteri morfologici essenziali (Mahon, com. or.).

Proprio quegli stessi brani pittorici celebrati dalla Ghidiglia Quintavalle, come la “leggerezza fioccosa dei capelli e della barba” e la veridicità delle venuzze “che affiorano in trama sottile alle tempie e sulla mano” ci appaiono ora, dopo la riscoperta di tanti dipinti originali del maestro, esageratamente enfatici e così poco eleganti nel tocco da non poter essere considerati autografi. Purtroppo il Libro dei conti non ci aiuta nel tentativo di precisare a quale commissione possiamo riferirci: durante il quinto decennio del ’600 sono ben sei le mezze figure di San Gerolamo che attualmente non risultano identificate. Nella Pinacoteca Civica di Cento si conserva un’incisione ottocentesca di Moriz Ewin Klug (Neustadt-Dresda, 1802-?) che riproduce il nostro dipinto, forse quando già si trovava esposto in Galleria (Gozzi 1996).

Bibliografia
Toschi 1825, p. 9;
Malaspina 1869, p. 54;
Martini 1871, p. 50;
Martini 1872, p. 59;
Martini 1875 p. 19;
Pigorini 1887, p. 19;
Ricci 1896, p. 93;
Voss 1922, p. 220;
Sorrentino 1931a, p. 16;
Ghidiglia Quintavalle 1934, pp. 504-509;
Quintavalle A.O. 1939, pp. 80-81;
Quintavalle A.O. 1948b, p. 103, n. 179;
Ghidiglia Quintavalle 1956b, p. 26;
Gozzi 1996, n. 243, p. 202
Restauri
1887 (S. Centenari)
Mostre
Parma 1948
Scheda di Barbara Ghelfi, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere iol Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.