- Titolo: San Benedetto consegna la Regola ai santi Mauro e Placido
- Autore: Alessandro Bernabei
- Data: inizi del XVII secolo
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 207 x 152
- Provenienza: Parma, chiesa di Sant’Alessandro
- Inventario: GN 68
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: L’eredità del Correggio
Il dipinto è menzionato fra le opere della Galleria già nel 1825 da Paolo Toschi, che pur non proponendo un nome preciso coglie “in molte sue parti il fare dei Mazzola”; successivamente viene con più precisione assegnato a Girolamo Mazzola Bedoli da Martini, Pigorini e dal Ricci, che lo considera addirittura fra le opere migliori dell’artista.
Concordano nell’attribuzione ancora Testi e Sorrentino, ma poco dopo (1937-38 e 1939) il Quintavalle propende per una datazione più tarda del quadro, che a suo avviso solo una generica somiglianza apparenta al fare del Bedoli, mancando a san Benedetto il carattere volitivo dei vescovi di San Martino de’ Bocci e cogliendosi nei giovani monaci “una chiara ispirazione all’arte bolognese della fine del XVI secolo su substrato parmense correggesco e parmigianinesco”; egli pertanto propone ipoteticamente la paternità di Alessandro Bernabei, fratello minore del più noto Pier Antonio e suo collaboratore negli affreschi di Santa Maria dei Servi tra 1612 e 1614 (Masnovo 1909, pp. 38-39) e di Santa Maria degli Angeli fra 1617 e 1620, eseguendo in questo caso la decorazione della navata sinistra (Mendogni 1986, pp. 207-209).
Quanto alla provenienza del dipinto Quintavalle (1939) la dice ignota, non riprendendo un suggerimento del Ricci, secondo cui lo si riteneva in origine ubicato nella chiesa del monastero femminile benedettino di Sant’Alessandro; in realtà già nel tardo ’700 una chiara indicazione in tal senso era venuta dal Baistrocchi, talmente precisa da far supporre che egli abbia potuto vedere il quadro ancora in loco: fra le molte belle pitture delle monache ricorda infatti che soprattutto “mirabile si è un quadro nel coro rappresentante San Benedetto che benedice San Mauro e San Placido”, ritenuto “dai più” opera di Girolamo Mazzola. Del resto il soggetto è del tutto consono a una destinazione benedettina e nella chiesa di Sant’Alessandro è attestata l’esistenza di un altare dedicato a San Mauro, ove nel XVIII secolo era una pala di Sebastiano Ricci (Ruta 1780, p. 25). Difficile stabilire se il quadro in esame fosse in origine destinato al coro, vasto ambiente retrostante la chiesa e con essa collegato anche se riservato esclusivamente alle monache, o piuttosto a quello stesso altare fungendo da pala precedentemente a quella del Ricci; i caratteri stilistici ne suggeriscono comunque una datazione agli inizi del XVII secolo, pur con una forte persistenza di connotazioni ancora cinquecentesche.
Di estrazione tardomanierista appare soprattutto la bella figura di san Benedetto, vestito di ricchi paramenti vescovili, nell’evidente eleganza formale come nell’estrema attenzione al dettaglio e alla resa quasi tattile della materia: si veda il volto nitidamente segnato nel profilo e nei piani facciali, forse un po’ rigidi e appena ammorbiditi dalla fluente barba; si veda la linea elegante della mano che porge la Regola al giovane Mauro; si veda la minuziosa descrizione del piviale in damasco cremisi, di cui possiamo cogliere l’andamento del disegno e i particolari dello stolone, ove fra simulati ricami spiccano ovati con figure (sul lato in luce riconoscibili dall’alto san Paolo con spada e libro, san Giovanni Evangelista che sostiene il calice col serpente e san Tommaso con la squadra); si veda infine il gusto quasi da orafo con cui è delineato il pastorale, concluso da una terminazione a torretta gotica con figure e da un ricciolo includente l’Agnello crucifero. Anche il panneggiare del manto, improbabile e frastagliato, come pure la cromia, sia degli avorio che dei più intensi toni dello stolone o del tappeto verde sul suppedaneo, rimandano al XVI secolo, e nel complesso pare proprio che il riferimento più immediato sia al Bedoli, in primo luogo ai Santi Alessandro e Benedetto raffigurati nella pala dell’altare maggiore della chiesa stessa e quindi ai vescovi nella parte superiore del polittico di San Martino de’ Bocci, di cui peraltro ben altra è la tempra e non solo espressiva.
Tuttavia l’atteggiarsi della figura, ben equilibrata e stabile nella posizione seduta, denota una normalizzazione in direzione bolognese e seicentesca che si fa più evidente nei due giovani santi, Mauro inginocchiato a ricevere il libro e Placido in piedi alle sue spalle, entrambi in abito monacale e corredati di pastorale. In questa parte del dipinto, che il recentissimo restauro ha rivelato essere la più degradata e sottoposta in passato a estese ridipinture (come pure ha rivelato due pentimenti, uno relativo al viso di san Mauro, l’altro al pastorale di san Benedetto), si può cogliere una semplificata e più naturale impostazione della figura e dei volti, questi ultimi indubbiamente un poco inerti come voleva il Quintavalle, forse proprio a sottolineare la giovane età dei due monaci. Anche la solenne architettura del fondale richiama modelli del secondo ’500 nella complessa articolazione, tuttavia rifiuta le tradizionali visioni in scorcio adottando una simmetrica prospettiva centrica, focalizzata su una grande arcata fra colonne binate di ordine gigante, oltre la quale è un vano su cui si apre una porta con timpano triangolare sormontato da croce e statue semisdraiate; al termine del cannocchiale visivo una vivace scenetta a rapidi tocchi, appena intuibile, raffigura un monaco in atto di celebrare o preparare la messa allestendo i vasi sacri e l’alzata di un altare con candelieri e croce.
Questo linguaggio pittorico, che ancora nel XVII secolo (seicentesca anche la preparazione di colore rossastro) si attarda su moduli di quello precedente, mostra evidenti assonanze con l’opera dei Berbabei, artisti di estrazione sostanzialmente tardomanierista, ancora profondamente legati alla tradizione parmense, da Correggio, al Parmigianino al Bedoli e oltre, sia pure con venature di “classicismo riformato” (Ferratini 1967, p. 136) desunte in prima persona da Pier Antonio a Bologna, dove si ritiene abbia compiuto la sua formazione, ma anche grazie ai contatti con i numerosi pittori bolognesi operanti a Parma soprattutto per la Corte farnesiana; non si deve dimenticare la documentata partecipazione dei due Bernabei alla vasta équipe attiva nella decorazione del grande teatro voluto da Ranuccio I, guidata appunto da Lionello Spada e dal Dentone (Fornari 1993, p. 101). L’attribuzione del Quintavalle ad Alessandro si basava anche sul confronto con una tela in San Sepolcro a Parma raffigurante i Santi Agostino e Monica, da lui e da Santangelo (1934, p. 96) ascritta al Bernabei più giovane soprattutto per quella che giudicavano una minore qualità rispetto alle opere del fratello, ma citata come opera di Pier Antonio da varie fonti locali fra cui in primis l’Affò – Ravazzoni (fine del XVIII secolo, c. 336r) che nella stessa chiesa gli assegnava pure una Madonna con i santi Francesco, Agostino, Pietro e Paolo riportando pagamenti del 1621. Anche se i limiti di una scheda di catalogo non consentono di approfondire il problema della distinzione fra le due mani, pare più corretto vedere nella tela di Sant’Agostino la paternità di Pier Antonio, ritornando in essa fisionomie dal profilo sfuggente, tipologia di angioletti, forme ampie e scivolate dei corpi frequenti nei suoi lavori certi (ad esempio la cupola del Quartiere, ma cfr. anche scheda n. 442 in questo volume). Ad Alessandro Affò (cit., c. 341r) assegna invece altre due quadri di San Sepolcro, la Madonna con i santi Martino e Caterina e Gesù in gloria fra i santi Sebastiano e Rocco, riferiti sempre al 1621, con il primo dei quali in particolare il dipinto in esame mostra forti assonanze nella salda definizione dei volti, nella linea delle mani, nelle posizioni equilibrate e sufficientemente naturali (così diverse da quelle più manieristiche del fratello), nelle lumeggiature sui dettagli architettonici, nella minuziosità descrittiva. La somiglianza si fa evidente in particolare tra le figure di san Benedetto e san Martino, anche quest’ultimo rivestito di un ricco piviale con stolone ricamato in cui compaiono figure entro nicchie, motivo che ancora una volta trova un precedente in Bedoli, nel Sant’Ilario del polittico di Paradigna e nel disegno preparatorio della pala di Sant’Alessandro (Parigi, Louvre; cfr. Di Giampaolo 1997, pp. 62-63). Ma ciò che colpisce nel dipinto della Galleria è l’equilibrato rigore delle figure e della composizione, quella sobria solennità di ascendenza bolognese e controriformata, cui si coniugano un fare fuso e una morbidezza pittorica superiori rispetto alla Sacra Conversazione di San Sepolcro, specialmente nella figura del vecchio abate; tale qualità potrebbe addirittura giustificare qualche dubbio sull’attribuzione, anche se resta difficile trovare un confronto più calzante nel panorama della pittura parmense del primo ’600. Il dipinto andrebbe comunque collocato nel periodo della piena maturità artistica del pittore, magari in concomitanza con gli importanti interventi architettonici e decorativi sulla chiesa di Sant’Alessandro voluti da Margherita Farnese, sorella del duca Ranuccio, fattasi monaca nel 1583 in San Paolo e dal 1592 in Sant’Alessandro, ove fu più volte badessa (cfr. Nasalli Rocca 1969, pp. 130-132): dal 1622 al 1629 tale interventi comportarono il completo rifacimento dell’interno su progetto di G. Battista Magnani e la realizzazione degli affreschi ad opera del Colonna e del Tiarini. Probabilmente in questo giro d’anni si potrebbe collocare anche il nostro dipinto, del quale non si può escludere una diretta committenza farnesiana, considerando che nella vita religiosa Margherita assunse il nome di Maura Lucenia e che questo potrebbe essere un omaggio al santo eponimo.
Si segnala infine una curiosa circostanza, forse non priva di significato: l’architetto Magnani dovette avere con Alessandro Bernabei una conoscenza più che occasionale, acquistando da lui una casa nella vicinia di Sant’Ambrogio e rivendendogliene in cambio un’altra in quella di Santa Maria Maddalena, adiacente a un secondo edificio che restò di sua proprietà; entrambi poi, in qualità di confinanti, affittarono le due case nel 1630 agli anziani del Comune per consentire l’ampliamento della Casa dei Mendicati (Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti…, V, cc. 51, 57-58): un rapporto di frequentazione può essere solo supposto, ma l’architettura dipinta nel quadro non riecheggia proprio il motivo dell’arco trionfale sul quale il Magnani imposta l’interno di Sant’Alessandro?