Il dipinto è reso noto con l’assegnazione al cavalier Giovanni Lanfranco solamente in epoca molto tarda, nell’inventario della collezione da cui proviene dove è segnato con il n. 89 e dove viene valutato lire 1200 e ritenuto importante per l’Accademia anche perché “non cade dubbio sulla sua originalità”.

Successivamente ha trovato menzione, con continuità, nelle guide della Pinacoteca fino al Ricci che si limita a riportare e, pare, a condividere il giudizio di Pietro Martini per il quale è da considerarsi una replica con lo stesso soggetto dipinta da Lanfranco per la cappella Sacchetti in San Giovanni dei Fiorentini a Roma.

La sua autografia per il Ricci sarebbe ulteriormente comprovata dall’appartenenza alla famiglia Dalla Rosa, sostenitrice dell’artista e dall’annotazione dedicata all’opera da padre Isidoro Grassi nel suo manoscritto del 1730, dove peraltro viene menzionata come “insigne tavola” e non come tela.

Il Quintavalle che, per la prima volta, ha la possibilità di vederla dopo la pulitura, sviluppa una sua precisa convinzione di autografia assegnandola al periodo romano, sottolineandone le influenze chiaroscurali esclusivamente di superficie, desunte da Caravaggio, e le derivazioni dal Tintoretto di San Rocco “tradotte in spicciolo linguaggio parmense”. Il Bernini descrivendo l’attività del Lanfranco nella cappella Sacchetti si limita a citare la replica della Pinacoteca riportandone l’immagine.

Dalle scarne notizie in nostro possesso appare difficile proporre conclusioni definitive in merito; si può solo effettuare un esame rigoroso e comparato delle due opere che presentano uno scarto dimensionale notevole (cm 300 x 200 la tavola romana) e una diversità di supporto che sicuramente determina una diversa efficacia traduttiva.

L’impaginazione è la stessa, non esistono varianti sostanziali se non nella tessitura cromatica del cielo e nella consistenza del legno della Croce. Sono identici la volontà di scorcio dal basso verso l’alto, la pendenza del terreno e della Croce, la gestualità dei personaggi, l’affollamento e i movimenti. Si nota però una diversa volontà prospettica: nel quadro romano la traiettoria dello sguardo individua una scena più lontana dove dimensione spaziale e figure appaiono più bilanciate e coinvolgenti, mentre nella tela parmense tutta la scena appare meno scorciata e portata in primo piano, con un’idea di densità che sembra sfuggire al controllo dell’artista sempre attento all’equilibrio spazio-figure.

I panneggi sono resi con maggiore sommarietà, come i capelli e i volti che denotano una buona conduzione di superficie, ma mancano dell’intensità del quadro Sacchetti.

Il Bellori (1976, p. 387) descrive il “Salvadore caduto sotto la croce; San Giovanni che regge con una mano la Vergine tramortita e stendendo l’altra chiama in aiuto la Maddalena, la quale genuflessa, con le palme incrocicchiate, piange lo strazio del Signore”, ma non parla di repliche possibili, anche se bisogna tener conto che nella Vita di Giovanni Lanfranco non si riportano tutte le opere dell’artista e così nelle altre fonti storiche.

Nella cappella Sacchetti, collocata cronologicamente agli anni 1622-23, si devono al Lanfranco gli affreschi della cupola con l’Ascensione di Cristo fra gli angeli, che recano i simboli della Passione, i pennacchi con i Profeti, due lunette laterali con la Cattura e la Derisione di Cristo sotto cui sono collocate le due tavole con l’Andata al Calvario (a sinistra) e l’Orazione all’orto (a destra).

Un insieme unitario, dal risultato esaltante commissionato a Lanfranco dal ricchissimo imprenditore e banchiere fiorentino Giovanni Battista Sacchetti, i cui figli erano in stretto rapporto d’amicizia con Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII. Il committente aveva voluto affidare l’opera a un artista “che si era affermato negli ultimi anni del pontificato di Paolo V come uno dei più rinomati pittori di Roma” (Schleier 1983, pp. 90-92 che pubblica anche i disegni preparatori).

Aveva al suo attivo diverse opere pubbliche in chiese romane e aveva fama di essere “il più avanzato del momento e di aver aperto la strada al vero stile barocco”, per quel fare “dinamico e drammatico… che impegnano lo spazio con una nuova larghezza e un’energia quasi dirompente”. Nel nostro quadro questi caratteri risultano bloccati e sommari, anche se non completamente assenti.

Sarebbe stato poco corretto, poi, replicare subito un dipinto esclusivo eseguito per un luogo imponente e per un committente così rigoroso. Si può pensare invece che sia uscito, anni più tardi, dal suo entourage per rispondere a qualche pressante richiesta visto il successo crescente del pittore fino alla morte.
E allora si potrebbe pensare a una esecuzione di mano dei suoi allievi quali il Mengucci e Antonio Riechieri, gli unici citati dalle fonti (cfr. Schleier 1964a, pp. 59-63) e forse attivi al suo fianco anche nel ciclo di Villa Arrigoni-Varesi-Muti a Frascati, ritenuti “dei primi anni del quarto decennio”.

Si conoscono del resto molte copie di minore qualità di cui una proveniente da Casa Bertamini e ora conservata nel Museo di Castell’Arquato (olio su tela, cm 200 x 180) ritenuta della seconda metà del XVII secolo (cfr. Ceschi Lavagetto 1994, p. 47) e una in collezione Dario Succi a Gorizia (olio su tela, cm 165 x 125) anch’essa tardo seicentesca.

Le pitture della cappella furono incise e pubblicate ancora nel 1776 da Domenico Cunego.

Bibliografia
Martini 1875, p. 11;
Pigorini 1887, p. 11;
Ricci 1896, p. 151; Voss 1928, p. 311;
Quintavalle A.O. 1939, p. 67;
Bernini 1985, p. 61
Restauri
1939;
1951-52
Scheda di Lucia Fornari Schianchi, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.