• Titolo: Rovine antiche
  • Autore: Hubert Robert
  • Data: 1750-1760
  • Tecnica: Olio su tela
  • Dimensioni: 98 x 135,6
  • Provenienza: Firenze, Galleria degli Uffizi, in Galleria dal 1928
  • Inventario: Inv. 1148
  • Genere: Pittura
  • Museo: Galleria Nazionale
  • Sezione espositiva: Il Grand Tour

Complessa la vicenda di questa tela che non è menzionata nei più antichi inventari della Galleria. Il dipinto proviene dalla Galleria degli Uffizi, ove entrò nel 1914, venduto da certo Tancredi Renato Fallani di Roma (Inventario generale, carta 260). Nel 1928, in seguito a una permuta con due tavole duecentesche, la tela entrò a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale, unitamente a la Schiava turca del Parmigianino, già nella collezione del cardinale Leopoldo de Medici, e alla Famiglia di Don Filippo di Borbone del Baldrighi (Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 206).

Nel 1928, in seguito a una permuta con due tavole duecentesche, la tela entrò a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale, unitamente a la Schiava turca del Parmigianino, già nella collezione del cardinale Leopoldo de Medici, e alla Famiglia di Don Filippo di Borbone del Baldrighi (Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 206).

Assegnato nel catalogo della Galleria degli Uffizi al Panini, come pure l’Arco di Tito tuttora nella galleria fiorentina, l’attribuzione all’artista piacentino fu confermata anche dall’Ozzola. Il dipinto fu poi riconosciuto al catalogo di Hubert Robert dal Voss (1927, p. 743), che lo ascriveva al periodo giovanile del pittore. L’attribuzione del Voss trovò concordi Quintavalle (1939, p. 228) che lo ritenne eseguito durante il periodo del pensionato romano (1754-1765), Briganti (1969, pp. 38, 310), Rosenberg (1977; 1999, II, passim), seguiti dalla Fornari Schianchi (s.d. [ma 1983], pp. 206, 207) che rilegge l’opera alla luce del complesso rapporto fra il ’700 e l’antico, prodotto di quella feconda koiné che nella Roma di metà ’700 attrasse viaggiatori e artisti, antiquari e collezionisti. Fermo restando l’autorevolezza degli studiosi poc’anzi citati e l’ampio argomentare delle ragioni attributive espresse, ci sia consentito mantenere un margine di dubbio alla controversa questione. La cronologia dell’opera pittorica dell’artista è ancora piuttosto imprecisa perché si possa risolvere il complesso problema dei suoi primi quadri romani, sicché si preferisce lasciare aperta la questione relativa alla datazione, che si è comunque indotti a collocare in anni di poco successivi l’arrivo a Roma. Il dipinto potrebbe pertanto essere stato eseguito sul 1756-57, periodo al quale sono state riferite altre opere di obbedienza paniniana come la Veduta ispirata all’arco di Settimio Severo e il suo pendant, la Veduta ispirata all’arco di Costantino, i fogli del Musée des Beaux Arts di Valénce e Alessandro Magno davanti alla tomba di Achille, la tela del Louvre nella quale pure compare la piramide Cestia (Cuzin –  Rosenberg – Boulot 1990, cat. 2, 3).

Un inventario archeologico di architetture e di sculture, di statue e capitelli domina la scena romana delle immagini che invasero ogni luogo d’Europa sulla scorta delle tavole incise da Piranesi. Sono gli Anni cinquanta-sessanta del ’700. È una topografia urbana stravolta, paesaggio di rovine e di assenza, le mura erose dal tempo, i ruderi sommersi. È la poesia delle rovine. Ne fu attratto Hubert Robert, a Roma dal novembre 1754. Il pittore francese studiò disegno nell’atelier dello scultore Michel-Ange Slodtz (1705-1764), dal quale non è chiaro cosa abbia appreso poiché nessuna delle opere precedenti il viaggio in Italia è oggi nota. Fu verosimilmente Slodtz, ammiratore dell’arte italiana, a suscitare nel giovane allievo il desiderio del viaggio a Roma, che il pittore intraprese a soli ventuno anni, nel 1754, al seguito dell’ambasciatore di Francia, il conte di Stainville, futuro duca di Choiseul. Il lungo soggiorno romano (1754-1765), nel corso del quale Robert ottenne un posto ufficiale di allievo all’Académie de France, protetto da Choiseul e amico di Charles Natoire, fu per l’artista assai felice. Importanti gli incontri e i contatti con gli artisti, dallo scultore Pajou, agli architetti Peyre e De Wailly, a Fragonard, che giunse nel dicembre 1756, pittore di successo, dallo stile ampiamente sperimentato e coerente. A Roma, Fragonard rimase fino al 1761. Quando vi tornò, nel 1773-74, coltivava altre ambizioni e nei suoi paesaggi, affrancati dalla riconoscibilità di una descrizione precisa, contava solo l’evocazione della luce italiana. Per non dire dell’incontro col piacentino Giovanni Paolo Panini (1691-1765), professore di prospettiva all’Accademia di Francia, senza dubbio il pittore italiano più legato all’ambiente francese di Roma, che aveva come assiduo cliente il conte di Stainville, protettore di Robert. Fu questo il periodo creativo più intenso, sia per l’originalità sia per la qualità delle opere.

I numerosi disegni da lui eseguiti – “ritratti” di giardini nelle tonalità infiammate della sanguigna – i dipinti a olio di rovine e di giardini, dalle morbide linee del paesaggio, testimoniano la qualità di un’esecuzione risolta con una tecnica libera che lascia le figure appena abbozzate e denuncia al tempo stesso una non comune ricchezza inventiva. Immagini vere e visionarie, tradotte con tocchi di intensa vitalità, sovente esenti da norme prospettiche e di precisione topografica.

Questa sua naturale e felice inclinazione, coniugata al successo incontrato presso il collezionismo, lo indusse a “declinare con una ripetitività un po’ stancante… i temi del paesaggio e dell’architettura” (Boulot, in Cuzin – Rosenberg – Boulot 1990,
p. 31), fermo restando che anche quando l’artista riprese a distanza di anni uno stesso soggetto, ne fornì una versione sempre minimamente modificata nel dettaglio.

La tela della Galleria Nazionale raffigura un profondo e luminoso paesaggio dominato da monumentali rovine di templi romani, una piramide, i resti di un edificio di cui si scorge la volta a botte cassettonata. La presenza della piramide Cestia arbitrariamente accostata ad altri ruderi denuncia il debito verso Panini, la cui frequentazione – si è detto – fu forse più importante per Robert di quella di Fragonard. Come interpretare la piramide di Caio Cestio, ripresa d’après nature, o piuttosto citazione colta tratta dai manuali di antichità del Labacco o del Lauro? Repertori di antichità e trattati di architettura – quelli del Serlio e del Vignola – erano presenti nella biblioteca dei pittori di rovine ai quali fornivano un campionario di modelli davvero ampio.

Anche questa scena è animata da numerose figure dipinte con una tecnica sciolta, nel gusto proprio del pittore che rendeva vitali le vedute di Roma nell’instaurarsi di un confidenziale rapporto fra il rudere e la gente, poveracci e lavandaie (Ottani Cavina 1994, p. 33). È la celebrazione di un mondo archeologico e di una città che, fra i ruderi dell’antichità classica, ostenta il suo colossale splendore. A sinistra, un gruppo statuario, in primo piano, al centro, frammenti di colonne e di capitelli e una lastra marmorea scolpita, disposti con calcolato disordine. Ruderi vinti dalla vegetazione nel gusto che accomuna Robert a Fragonard, inclini a proporre, sul versante pittorico, Die Ruinenstadt Rome, il topos letterario della città che muore, la cui vetusta tradizione fu ripresa, a distanza, da Burchkardt (Die Kultur der renaissance in Italien, Basel 1860).

La sentimentalità elegiaca del rudere vinto dalla vegetazione, nei modi eternati da Hubert Robert e Fragonard – penso ai giardini di Villa d’Este a Tivoli, alle sue numerose statue e alle fontane in abbandono disegnati nell’arco di un’estate dai due artisti (Cuzin – Rosenberg – Boulot 1990) – le mille sinfonie dei verdi di una vegetazione invasiva e prorompente tornano anche in questa tela a inghiottire la struttura architettonica, monumentale, diruta quinta scenica sulla sinistra. Ma anche quando la vegetazione invade la pietra, la sua visione non è quella dell’archeologo, quanto piuttosto quella di un osservatore e di un pittore che ama soffermarsi a suggerire i contrasti di materie e di atmosfere nelle architetture in rovina. La peculiarità del dipinto è infatti costituita dal senso della luce atmosferica e da una netta articolazione di piani affidata al nitido disporsi delle architetture in una straordinaria dinamica che integra monumenti, vegetali e figure.

Il fascino delle antiche rovine romane attrasse numerosi artisti francesi che a Roma nel primo ’700 gravitavano nella cerchia del Panini. Le rovine antiche di fantasia, sulla via da questi praticata, animate dalle attività feriali del popolino romano, costituirono i temi privilegiati anche da Hubert Robert, che conobbe Giovanni Paolo Panini a Roma ove questi risiedeva dal 1711 e che divenne per lui modello ideale.

Quella “certa inclinazione per i dipinti architettonici” – ricordata da Natoire – fece sì che Robert si specializzasse nella rappresentazione di rovine antiche e di vedute architettoniche della città eterna e una volta rientrato a Parigi, consolidata la fama di paesaggista e decoratore, divenne il principale divulgatore in Francia di una Roma antica e moderna, di immagini assai richieste da una committenza sempre più numerosa (Rosenberg 1999, t. I, pp. 543 sgg.).

L’esempio del Panini fu per lui così profondo da influenzarne la carriera fino agli anni estremi. Non solo Panini e Fragonard, giacché alla sua maturazione pittorica concorse anche Piranesi, evocato nel fuoriscala delle sue architetture, nella monumentalità degli edifici ripresi sovente con un punto di vista ribassato. Pur tuttavia la cifra stilistica dell’artista francese si caratterizzò per la ricerca di effetti più leggeri e colorati, tesi a creare un’atmosfera più che a descrivere un luogo riconoscibile, con esiti di un felicissimo virtuosismo pittorico.

A Hubert Robert si deve infatti, nella Francia del secondo ’700, la diffusione della pittura di architettura sulla scorta del Panini. E come Fragonard, brillante disegnatore di giardini romani a fianco del quale Robert si trovò a lavorare durante il soggiorno italiano e con il quale fu talora confuso, fu uno degli ultimi, forbiti rappresentanti del Rococò, che apre verso il sentimento romantico della natura.

Bibliografia
Sorrentino 1928, pp. 140,141;
Sorrentino 1931, p. 11;
Voss 1927, pp. 743 sgg.;
Quintavalle A.O. 1939, p. 228;
Quintavalle A.O. 1948, p. 284;
Pittura francese… 1977, p. 194;
Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], pp. 206, 207;
e ancora su H. Robert: Cuzin – Rosenberg – Boulot 1990;
Rosenberg 1999, II, ad indicem (con bibl. prec.)
Anna Coccioli Mastroviti, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.