- Titolo: Ritratto virile in nero
- Autore: Anonimo veneto
- Data: Metà del XVI secolo
- Tecnica: Olio su tavola
- Dimensioni: cm 100 x 81
- Provenienza: Parma, contessa Adelaide Baiardi; Accademia, 1840
- Inventario: GN 301
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura veneta 1200-1500
Per ora la memoria critica e la storia di quest’opera non vanno oltre l’800 e hanno inizio da una trattativa che si svolge fra la contessa Adelaide Baiardi che la offre in vendita all’Accademia unitamente ad altri due dipinti.
Si legge, infatti, negli Atti dell’Accademia del 28 luglio 1840 (vol. 4, 1839-1846,pp. 87-88) che la contessa, pochi giorni avanti, aveva proposto l’acquisto di“due teste in quadri dipinti ad olio: uno figurante San Benedetto e un altro San Mauro, copiate dalla tazza del coro nella chiesa di San Giovanni (inv. 116-117) e per esse dimandava il prezzo di tremila lire nuove”. Il corpo accademico si mostra interessato all’acquisto ma giudica troppo alto il prezzo richiesto, dimostrandosi disposto “a offrire seicento lire di quelle”. La trattativa sembra arrestarsi, ma si riapre con una ulteriore proposta della stessa contessa Baiardi che offre “parimenti un ampio quadro dipinto da Antonio Pordenone [sic] [si tratta del ritratto in questione], per millecinquecento lire nuove, con un totale per le tre opere di quattromilacinquecento lire”. Il corpo accademico “lodò, e ben molto, ancora il ritratto. E perché di lavoro di per sé riguardevole e di un tempo assai rilevante per l’arte e perché nessun altro se ne ha di quel reputatissimo artista”. La trattativa si concluse con soddisfazione di entrambe le parti su un prezzo complessivo per i tre dipinti di milleseicento lire e in base all’Atto sovrano del 29 settembre 1840. Durante una successiva adunanza del 15 ottobre 1840 (Atti… 1839-1846, pp. 99-102) si dimostra ogni riconoscenza verso Maria Luigia che aveva approvato “con venerando rescritto datato 11 settembre” dello stesso anno l’acquisto delle tre opere.
Il ritratto viene inventariato nel 1852 con il n. 406 e l’assegnazione a Licinio Giovanni Antonio da Pordenone (sic), riproposta dal Martini, che lo classifica come “Ritratto di sacerdote che ha dinanzi, sopra un tavolo, un grosso volume aperto’ e ne indica l’esposizione nella Sala VIII dei Ritratti e dal Pigorini che accoglie le indicazioni precedenti. Il Ricci, dimostrando di avere scarsa affinità con la pittura seicentesca, o forse perché lo esamina dopo un intervento pittorico che ne muta completamente la cromia del fondo iscurito secondo il gusto del secolo successivo, ne sottolinea le componenti artistiche di Amidano e Schedoni, proponendone l’assegnazione a quest’ultimo “allorché si esprimeva su tavola e non disdegnava i modelli all’antica”. Il Ricci, forse in base all’iscrizione apocrifa che corre lungo il bordo superiore al centro del quadro, ne identifica il soggetto con Jacopo Baiardi, poeta parmense del XVI secolo (Jannelli 1877, p. 31; Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti…, vol. I, ad vocem).
La scritta recita, infatti, “Jacobi Bajardi I. C. Doctor equitis Comitis Palatini ac Ducalis Senatoris perpetuitatem merentis effigies”. Sia l’identificazione del personaggio che l’attribuzione vengono riproposte dubitativamente dal Quintavalle che sottolinea “l’intensità dell’espressione e, nel colore, chiari rapporti con lo Schedoni, anche se non gli può essere attribuito con sicurezza per alcuni elementi arcaistici e fuori stilismo schedoniano”. Già il Moschini non lo aveva accettato nel catalogo dell’artista, anticipandone l’esecuzione alla metà del ’500.
Il recente restauro ha rivelato un supporto ligneo di pioppo, una preparazione leggermente virata sul verdino e diversi passaggi di velature oleose pigmentate che sottolineano una tecnica all’antica, inducendoci a riproporre una datazione non successiva alla metà del ’500, ulteriormente rafforzata dalla scoperta del fondo originale chiaro, giallo-ocra – di contro a quello nero completamente rifatto come la scritta di certo successiva – che riporta ai rapporti cromatici e alla sensibilità pittorica propri del secolo precedente.
Il personaggio austero, dal volto scavato e dagli abiti sacerdotali, ma tipici anche dell’intellettuale del ’500, si presenta a mezzo busto, in posa dimostrativa seduto su una savonarola con un panno tessuto a tappeto sulle ginocchia e un grosso volume aperto, su cui posa la mano con anello e sigillo, dove sono leggibili solo le parole “Liber Primus”. La tecnica, la consistenza materica, la fisionomia rigorosa, la paradigmatica effigie di intellettuale fanno pensare a un artista veneto operante verso la metà del ’500 che affina le esperienze e i contenuti di provenienza veneta, ferrarese, lombarda e fiamminga. Il ritratto è, comunque, non più ascrivibile né a Schedoni né all’area parmense seicentesca nella quale era confluito, come è da espungere dal vago riferimento al Pordenone cui era stato assegnato all’epoca della vendita anche perché foriero di notevole confusione tra il presumibile Antonio de’ Sacchis e Licinio Giovan Antonio da Pordenone. L’ambientazione essenziale, l’abbigliamento severo oltreché la sommaria descrizione delle mani e del libro contrastano con la qualità risolutiva del viso che dimostra fermezza di carattere e uno sguardo intenso provato dall’età, come in certi dipinti di tradizione veneta.