Proveniente dalla collezione ducale, il dipinto è trasferito a Napoli, insieme alla Quadreria farnesiana, in seguito alle spoliazioni borboniche; passa quindi alla Reggia di Caserta (inv. 1907, n. 483) dove rimane fino al 1943, anno in cui viene restituito alla Pinacoteca insieme ad altre opere.

L’attribuzione all’Aretusi risale all’epoca della restituzione del dipinto, quando il Quintavalle lo assegna al pittore bolognese in base ad affinità stilistiche con l’altro Ritratto di Ranuccio conservato in Galleria (inv. 345, scheda n. 371), proveniente dalla collezione Sanvitale e ritenuto dell’Aretusi. Il Quintavalle erroneamente crede che la tela sia quella, di analoghe dimensioni, e priva di attribuzione ricordata nell’inventario del 1680 al n. 528 e che ragionevolmente potrebbe essere una copia del nostro. Bertini invece identifica correttamente il quadro con quel ritratto di Ranuccio I assegnato ad Agostino Carracci negli inventari relativi alle collezioni ducali parmensi del 1680 (n. 233) e del 1708 (n. 313). La descrizione e le dimensioni corrispondono e i minimi scarti sono giustificati da una riduzione della tela durante antichi restauri.

La critica ascrive concordemente il ritratto all’Aretusi e solo di recente la Giusto ha riproposto il problema attributivo, ipotizzando in maniera convincente il nome di Agostino Carracci, che è a Parma alle dipendenze della corte dalla fine dell’anno 1600. Tuttavia sono documentati dai Mastri due pagamenti precedenti, uno direttamente al Carracci nel 1597 per un ritratto donato al cardinale Farnese, l’altro nel 1599 si riferisce a un anello con smalti e diamanti “…donato da S.A. a M. Agostino Caraccioli Pittor Bolognese per un ritratto fatto dall’Alt.a S.a”.

Bellori, nella vita dedicata ad Agostino, descrive entrambi i ritratti e relativamente a quello in questione dice: “ritrasse questo principe tutto armato e guerriero degno figlio del grande Alessandro Farnese”. Alla fine degli Anni novanta si consolidavano anche le trattative di nozze con Margherita Aldobrandini ed è attendibile l’esigenza d’inviare a Roma un’effigie ufficiale del duca; forse il nostro dipinto potrebbe proprio essere quello pagato a Carracci nel 1597 e inviato al fratello Odoardo. L’ipotesi troverebbe riscontro negli inventari di Palazzo Farnese a Roma; malgrado le indicazioni sommarie, Jestaz pensa di poter riconoscere il ritratto di Ranuccio in quello del 1644 (n. 2057).

Più preciso è l’inventario del 1653, dove è riportato: “Un ritratto del S. Duca Ranuccio p.o in tela armato con collaro a frappe e mano sopra un elmo senza cornice” (Bertini 1987, p. 207) che sembra poter corrispondere nella descrizione al dipinto della Galleria. Sebbene non compaia nell’elenco delle opere passate da Roma a Parma nel 1662, è ipotizzabile che il quadro sia rientrato a quell’epoca e unito alla collezione ducale.

La restituzione del ritratto ad Agostino si basa sulle peculiarità stilistiche del dipinto, che presenta un impianto abilmente costruito e difficilmente riconducibile alla mano dell’Aretusi.

Il disegno è avvolgente e la resa pittorica rivela soluzioni di grande sensibilità nella descrizione dell’ampia gorgiera, nella definizione plastica dell’armatura da parata, su cui si riflette il guizzante gioco delle luci, che continuano nei tessuti dorati dei pantaloni a palloncino. Nell’analisi del volto, il pittore si sofferma a descrivere in modo naturalistico la capigliatura, la barba e, discostandosi dall’allora diffuso ritratto di corte, evidenzia efficacemente lo spessore psicologico del duca. Elementi che si contrappongono alla ritrattistica, piuttosto aulica e statica, che caratterizza non solo i ritratti dell’Aretusi di Pomponio Torelli (inv. 336, scheda n. 344) e di Paolo Ricci (inv. 339, scheda n. 345) conservati in Galleria e datati 1602.

Il nostro dipinto potrebbe essere il prototipo non solo di quello proveniente dalla collezione Sanvitale, ma anche di altri simili menzionati dagli inventari farnesiani; da dove si ricava che l’iconografia di Ranuccio I è ampiamente diffusa, se nell’inventario del 1680 sono sei le tele, di dimensioni differenti, che ripropongono il duca effigiato in questa posa. Rispetto alla tradizionale datazione del ritratto agli inizi del ’600, l’esecuzione sarebbe da arretrare di qualche anno, anche per la rilevante mancanza del Toson d’oro, conferito a Ranuccio nel 1601. L’aspetto fisico del duca piuttosto giovanile concorderebbe con una datazione del dipinto alla fine del ’500.

La fortuna di questo ritratto presso la corte farnesiana è comunque provata dalla presenza di numerose repliche: oltre a quella presente in Galleria (inv. 1013, scheda n. 372), e quelle conservate presso i Musei Civici di Modena e di Padova, è stata recentemente trovata, in collezione privata, una versione a figura intera con lievi varianti ipoteticamente assegnata a Sofonisba Anguissola (Fornari Schianchi 1993, p. 15).

Scheda di Nicoletta Moretti tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.