Il dipinto, a differenza di tanti altri ritratti farnesiani, rimase a Parma all’epoca delle spoliazioni operate da Carlo di Borbone e forse venne incamerato da Dorotea Sofia di Neoburgo, che continuò a risiedere nel ducato (Bertini 1996b). Nel 1865 il Demanio lo depositò nella R. Galleria.

Sulla tela di rifodero, è stato trascritto il nome “Alessandro figlio naturale di Alessandro Farnese”, intendendo come Alessandro Farnese il figlio del duca Odoardo, ma già il Ricci dubitò sull’identità del personaggio, che a suo dire, doveva essere mingherlino, monco e con pelle olivastra.

Le scarse notizie di questo Alessandro, figlio naturale del fratello del duca Ranuccio II, testimoniano di una sua drammatica avventura amorosa con Caterina Scotti e della sua morte avvenuta in età giovanile nel 1693, mentre era prigioniero nella Rocchetta (Drei 1954, p. 234).

Il Sorrentino nel 1931, senza alcun riferimento a questi problemi identificativi, ritiene che il personaggio sia il padre, il principe Alessandro, nato nel 1635 e succeduto nel 1657 al fratello Orazio nel “generalato veneto”. Visse ben ventidue anni lontano dal ducato, viaggiando in Olanda, Inghilterra, Francia, Spagna dove assolse incarichi politici e venne prima nominato viceré di Navarra e Catalogna, poi dal 1680-82 coprì l’alta carica di governatore generale dei Paesi Bassi. Nel 1682 tornò a Piacenza, ma ben presto fu richiamato a Venezia e nel 1689 morì a Madrid.

Proprio in considerazione di un ipotetico soggiorno a Bruxelles di Alessandro, Sorrentino, senza alcun documento, ma congetturando in base a quanto scrisse Sandrat a proposito di un invito al pittore Jacob Denys di assolvere impegni in quelle terre (1683, p. 393), propose di assegnare il dipinto al pittore d’origine fiamminga.

Le biografie su Jacob Denys danno l’artista ad Anversa nel 1678, ma come ha documentato la Tellini Perina (1983, pp. 29-36), ritornò a Mantova se nel 1698 firmò e datò una tela e vi morì nel 1700.

Il riconoscimento del personaggio con il principe Alessandro, fratello di Ranuccio, non fu posto in discussione dal Quintavalle mentre chi scrive avallò l’identità, proposta dal Sorrentino, che ora alla luce di una ricerca iconografica non sembra più convincere.

Una incisione conservata nella Raccolta Fainardi della Biblioteca Palatina (vol. II, c. 70) ci permette di conoscere l’esatta effigie del fratello di Ranuccio II all’età di venticinque anni e le sue sembianze differiscono alquanto dal personaggio del quadro. Un’altra conferma che sono due personaggi discordanti è data dal ritratto del principe Alessandro dipinto a fianco di Ranuccio II nella tela con l’albero genealogico in forma di giglio, conservato nel Museo Civico di Piacenza (Pronti 1997, p. 225).

Anche in un altro ritratto in miniatura conservato in Galleria (inv. 304/3, scheda n. 405), che lo raffigura più avanti negli anni, la somiglianza è scarsa, inoltre proprio nella miniatura indossa sulla corazza, simbolo delle sue valorose imprese militari, il Toson d’oro ricevuto da Filippo IV, che il nostro personaggio non mostra.

Difficilmente chi possedeva tale onorificenza tralasciava di metterla in evidenza anche su abiti riccamente ricamati. La foggia dell’abito ci conferma tuttavia una datazione di fine ’600, ma le condizioni della tela, piuttosto abrasa nella zona inferiore dei capelli e nel fondo e la sommaria attenzione al disegno dei ricami, nonché la poca incisività dei contorni, non sembra opera di un ritrattista fiammingo e tanto meno di Jacob Denys, se lo confrontiamo con il Ritratto di Alessandro Zoni in Palazzo d’Arco a Mantova. La tela fa pensare più a un dipinto di un artista emiliano – come suggerì Quintavalle – nella tradizione ritrattistica di Benedetto Gennari, i cui caratteri pittorici non differiscono dall’anonimo autore del ritratto di Isabella Farnese della scheda successiva (inv. 1482).

Iscrizione: sul verso, Alessandro figlio naturale di Alessandro Farnese

Scheda di Mariangela Giusto tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.