Fino alla metà del XVII secolo il dipinto si trovava nel Palazzo Farnese di Roma e conserva sul retro impressi su ceralacca grigio-marrone il numero 65 e lo scudo con il giglio, emblema dei Farnese.

Per lungo tempo si è pensato che il doppio ritratto raffigurasse Papa Clemente VII con il chierico Pietro Carnesecchi e come tale fu ancora considerato da Hirst (1981) e dalla Fornari Schianchi (s.d. [ma 1983]).

A dubitare dell’identificazione e a riconoscere nei personaggi Paolo III e un nipote fu la Ramsden (1969) – sostenuta da Lucco (1980) – che considerò scarsamente attendibile l’identificazione riportata nell’inventario del 1680 del Palazzo del Giardino che indicava il personaggio come Clemente VII, riscontrando attendibilità invece con quanto scrisse il Vasari nella vita di Sebastiano del Piombo, a proposito di un ritratto del “…medesimo papa Paolo Farnese subito che fu fatto sommo pontefice; e cominciò il duca di Castro suo figliolo, ma non lo finì…”.

Su questa identificazione è stata poi ricostruita, in occasione della mostra sul collezionismo dei Farnese, con sufficiente convinzione, la vicenda critica della lastra d’ardesia da Leone de Castris (1995), che associò il dipinto di Sebastiano del Piombo “…col ritratto di Papa Paolo III et il duca Ottavio, in pietra di Genova” menzionato in data 1600 fra i beni che il segretario Fulvio Orsini, alla sua morte, aveva lasciato al cardinale Odoardo, nel Palazzo Farnese di Roma (Bertini 1994). Inspiegabilmente l’equivoco sull’identità del papa raffigurato dovette nascere alla metà del XVII secolo se nell’inventario romano del 1644 non è elencata alcuna opera su ardesia di Sebastiano Luciani con questo soggetto, bensì un “ritratto in tela con cornice di noce raffigurante Clemente 7° e di un giovinetto…” (Jestaz 1994, p. 173), che ritorna con varianti nel supporto indicato come “tavola” o “ardesia” nei successivi elenchi, pur conservando il numero 65 d’inventario. Un recente intervento di restauro ha permesso di osservare con una telecamera riflettografica la lastra e in corrispondenza del volto del giovane nipote è apparsa, leggermente più in alto, una seconda versione della stessa testa, ultimata nei caratteri fisionomici e con una folta capigliatura, la cui posizione appare più consona alle proporzioni del corpo, a differenza della testa più incassata nel volume delle spalle.

L’opera nel suo insieme mostra chiari elementi di un dipinto non finito e la lastra, su cui è stesa una mestica di color grigio scuro, appare non perfettamente liscia, con leggere ondulazioni forse dovute a uno strumento a pettine o a spatola dentata, effetto certamente voluto dall’artista che – come scrisse il Vasari – si dedicò a sperimentazioni tecniche. Ampie zone del fondo sono state lasciate a livello di preparazione e appena abbozzati appaiono oltre al vestito del nipote, il tavolo in primo piano, la mano destra e la barba del papa. Per il tipo di supporto, le figure affiorano dallo scuro e la luce scivola morbida sui lineamenti di Paolo III, sulle maniche bianche e sulla mantellina di velluto che indossa, guizzante nei profili delle pieghe ottenute con pennellate gialle di color puro stese sull’intenso rosso di base.

L’identificazione del fanciullo con Ottavio Farnese non è avallata da ritratti infantili del futuro duca di Parma, ma può trovare attinenza con il titolo di duca di Castro, conferitogli nel 1545, quando però già aveva vent’anni. Dello stesso titolo fu insignito nel 1547 anche il fratello Orazio, e di lui invece esistono ritratti in giovane età e una lieve somiglianza sembra riscontrabile con il fanciullo conservato alla National Gallery di Londra, ritratto da Jacopino del Conte (Zapperi 1990, p. 57) prima del 1541, anno in cui Orazio, all’età di nove anni, si trasferì alla corte di Francia. Un’altra sua effigie di poco posteriore dovette servire da modello per l’affresco di Caprarola, dove Orazio giovanissimo è ritratto ai piedi di Paolo III nell’atto di ricevere la nomina di prefetto di Roma (Bertini 1993b, p. 59) ed è molto somigliante anche al personaggio raffigurato in miniatura fra i ritrattini conservati nella Galleria Nazionale di Parma (inv. 1177/8, vedi scheda n. 368). Questa identificazione tuttavia sposterebbe la datazione del dipinto molto oltre al 1534, data condivisa dagli storiografi e aprirebbe altri problemi sui dati fornitici da Vasari, che ricordava un ritratto di Paolo III eseguito poco dopo la sua ascesa al soglio pontificio. Pur riconoscendo nei lineamenti del papa una notevole similarità con le immagini che Sebastiano del Piombo ci ha tramandato di Clemente VII, a una osservazione più attenta si avvertono, nel disegno del naso e degli zigomi, i caratteri fisionomici di Paolo III e al di sotto della barba abbozzata si possono anche cogliere le guance scarne che nei ritratti di Tiziano connotano fortemente il personaggio. Rispetto al maestro cadorino, interprete ironico e acuto delle debolezze umane, la profonda monumentalità e imponenza che Sebastiano assegnò a ogni personaggio che ritrasse, non era solo dovuta all’apparenza delle forme, ma alla sua capacità di penetrare con dignità e realismo morale, nel ruolo sociale dell’effigiato. L’espressione “astratta e immota” di Paolo III, che Leone de Castris ritrova nel ritratto e nelle opere del Luciani del quarto decennio, datazione più plausibile, lo rendono pertanto trasformato e diverso dal minuto e stanco pontefice, carico di anni, che Tiziano ci ha tramandato, iconografia ben codificata anche nel XVII secolo, tanto da non riconoscerlo nel nostro personaggio.

Scheda di Mariangela Giusto tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.