- Titolo: Ritratto di famiglia
- Autore: Giuseppe Baldrighi (?)
- Data: 1756
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 264 x 419
- Provenienza: acquistato nel 1989
- Inventario: 2134
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Ritrattistica ducale
Questa grande tela è un grande rompicapo. Fu acquistata nel 1989 sul mercato d’arte francese, ma già in Italia anche su mia indicazione; e fu da me presentata al pubblico nel corso del convegno su Alexandre-Ennemond Petitot, “L’immaginario e la ragione”, tenutosi a Parma sul finire di maggio del 1989. Gli atti di quel convegno non sono mai stati dati alle stampe; e del mio intervento, fatto a braccio, non ho quasi più alcuna memoria. Ricordo, però, che tentavo d’attribuire la tela al Baldrighi: per via delle somiglianze, che continuo a scorgervi, con quella assai nota (e firmata) che ritrae a grandezza naturale la famiglia dell’Infante e duca di Parma Don Filippo.
Da allora, se non vado errato, questo enigmatico dipinto è rimasto inedito e privo di commento; se si eccettua la citazione della Ceschi Lavagetto, che non vi vede la mano del Baldrighi e che dubita anche della sua appartenenza all’ambito culturale parmense. Di certezze documentarie, neanche a parlarne: sul Baldrighi le fonti coeve sono avarissime, e il dipinto non è citato dalle manoscritte memorie del Bertoluzzi, ove sono riferiti alcuni ricordi raccolti dalla voce della figlia del pittore, Costanza. Non resta, quindi, che interrogare la tela, unico documento su se stessa.
Se si ammette una del tutto possibile decurtazione, d’un palmo o poco più, nella parte superiore, le dimensioni sono pressoché le stesse del “quadro della famiglia”, come il Bertoluzzi chiama il ritratto di Don Filippo con moglie e figli. L’ambientazione appare, anch’essa, assai simile: un interno vasto, con la luce che viene da sinistra attraverso una finestra la cui tenda è scostata e riccamente acconciata a drappeggio, un grande paravento di gusto francese, il pavimento in parte coperto dal tappeto, elementi d’arredo anch’essi francesi alla moda di metà secolo (un sontuoso e dorato orologio da muro nel quadro di Don Filippo, e qui un candelabro en applique similissimo a una coppia oggi al Quirinale, ma già a Colorno, resa nota dall’insostituibile studio di Chiara Briganti; ed è proprio lo stesso che Laurent Pécheux ha inserito nel suo ritratto del duca e Infante); e c’è perfino, nelle due tele, lo stesso colorito pappagallo, che è un ara proveniente dal Caribe (e magari dalle isole francesi di Martinica o Guadalupe, o dalla costa vicina). C’è insomma, fra le due tele, un’aria di stretta parentela.
La parentela è davvero stretta: perché non v’è dubbio che il personaggio all’estrema sinistra è appunto il papà della duchessa di Parma Louise-Elisabeth, sua primogenita amatissima, in famiglia chiamata Babet e andata sposa, a dodici anni, all’Infante di Spagna Don Filippo, poi duca di Parma. Su Luigi XV, come si sa, l’iconografia è vastissima: nel 1931 Maumené e d’Harcourt hanno messo in fila ben quattrocentocinquantuno suoi ritratti; ma basta dare un’occhiata al pastello di Maurice Quentin de la Tour, esposto al Salon del 1748 (oppure, visto che qui il volto è quasi in profilo, alle medaglie su modello di Bouchardon o di Marteau, o a quella di Roëttiers coniata nel 1757) per capire che il modello è lo stesso, e cioè appunto il re, tra i suoi quaranta e cinquant’anni. Com’è ovvio, in quasi tutti i suoi ritratti Luigi XV appare in veste solenne e in posa da sovrano. Ma qui il genere muta, e si scivola volutamente nella “conversation pièce”, al di fuori dell’ufficialità; e del resto quei pochi che lo frequentavano nella vita privata dicono di lui – come ricorda Pierre Gaxotte – che appariva “détendu, gai, parlant, plaisantant, jouant avec ses enfants qui l’adorent, s’amusant de rien”, e così via. Tiene con la mano destra il bordo d’un disegno d’architettura (di gusto francese, ovviamente, e pare una cosa di Jacques-Ange Gabriel); e conversa amabilmente con un giovane che regge l’altro angolo del foglio: e non so chi sia, ma potrebbe benissimo essere suo figlio, il Delfino di Francia Luigi, che, se la data a cui penso non s’allontana dal vero, doveva essere allora verso i venticinque anni, essendo nato nel 1729. La signora seduta in poltrona, in ricca veste da camera bordata di fourrure è di certo Maria Leszczynska, e cioè la regina: basta fare il confronto con i celebri ritratti ancora di de la Tour, e di Nattier, eseguiti qualche anno prima, sempre sorridente come qui, e abbigliata alla stessa moda (e con qualche grazia complimentosa, visto ch’era di sei anni maggiore dell’illustre consorte). Il bimbo e la bimba verso cui la sovrana tende la mano sono, con ogni verosimiglianza, i suoi nipoti, figli di Babet e di Don Filippo: e cioè Ferdinando e Maria Luisa, nati nel 1751; se così è (la somiglianza con i loro ritratti nel quadro ben noto “della famiglia” dipinto da Baldrighi appare, a me, convincente) dovrebbero essere sui cinque anni. La bimba che, accudita dalla governante, sta alle loro spalle non so proprio chi sia; e magari, in un contesto così squisitamente intimo e affettivo, è solo una loro compagna di giochi nelle stanze private della Corte. Ma tutti conosciamo benissimo, in compenso, la bella fanciulla che, nella parte destra della tela, ha appena iniziato ad abbozzare un ritratto della sovrana, reggendo il poggiamano e il matitatoio col pastello di fronte al cavalletto; la scatola dei pastelli, tutti ben in ordine di tono, è posata lì accanto, su uno sgabello. La fanciulla è di certo Isabella, la figlia più grande di Don Filippo e di Louise-Elisabeth, ch’era nata nel 1741, e che qui dimostra all’incirca quindici anni. Era, come si sa, pittrice di qualche talento, e intelligente allieva del Baldrighi, che le insegnava soprattutto a fare ritratti a pastello; come faceva anche lui, soprattutto negli anni del suo soggiorno parigino, e soprattutto – ricorda il Bertoluzzi – quando voleva in fretta togliere l’incomodo della posa a personaggi d’importanza; utilizzando poi, nella eventuale redazione a olio, appunto quei disegni colorati. E allora è più che probabile che sia appunto il suo maestro, e cioè proprio il Baldrighi, la persona che, in abito borghese, sta alle sue spalle, protendendosi e guidandole la mano con la voce: e i tratti del volto non mi pare contraddicano questa supposizione, anche se occorre ricondurre i pochi ritratti del Baldrighi a un profilo che certo non ci è familiare; e anche l’età che se ne può dedurre, sui trentacinque anni, può essere accettata.
Se le cose stanno così, a me pare davvero che fra questa tela e quella più nota con la famiglia di Don Filippo ci sia un legame evidente. Resta il fatto, innegabile, che fra i due dipinti s’avverte uno scarto non tanto di qualità, ma di gusto; ch’è più oggettivo e otticamente esatto là, e qui più pittorico e confidenziale. C’è soprattutto, qui, la voglia d’adeguarsi ai modelli ritrattistici di Nattier: ch’era di gran lunga il pittore preferito dalla Corte e soprattutto dalla regina, per quelle sue figure che – come diceva Georges Huard – “semblent s’offrir à la conversation”; e non per nulla, proprio per suo ordine, aveva ritratto più volte, fra il 1742 e il 1758, tutte le sue figlie; ed è anche suo, come si sa, l’ultimo ritratto di Babet, iniziato a Parigi nel 1759 e completato dopo l’improvvisa morte della duchessa. Dell’attività parigina del Baldrighi, fra il 1751 e il settembre 1756, non sappiamo molto; se non che faceva parecchi ritratti, “per cui ebbe colà moltissime commissioni di questo genere che fruttarongli emolumenti e distinzioni”, come rammenta il Bertoluzzi. Se è di sua mano, come riteneva la Quintavalle sulla scorta d’una antica tradizione familiare, il ritratto di Giacomo Antonio Sanvitale in costume da arcade, nella Rocca di Fontanellato (e si rammenti che il Sanvitale era gentiluomo di camera della duchessa, e inviato dalla Corte a Parigi proprio quando là c’era il Baldrighi; nel ritratto porta le insegne dell’Ordine del Saint-Esprit, conferitogli nel 1756)) allora è anche possibile che questa grande tela spetti anch’essa al Baldrighi: in entrambi i casi la pennellata, sdutta e un poco sfarfallante, è nel gusto di Nattier. Se così fosse, il Baldrighi potrebbe aver dipinto questa tela (utilizzando, come al solito, ritratti o abbozzi sommari a pastello per le teste dei personaggi) su richiesta della duchessa, per motivi d’affetto familiare. Quanto alla data, potrebbe essere quella dei suoi ultimi mesi parigini, oppure subito dopo il suo rientro a Parma, e magari già in previsione del “ritratto di famiglia” dell’Infante e duca Don Filippo: il che spiegherebbe la possibile originaria simiglianza di misure delle due tele. È anche possibile che questa tela sia rimasta a mezzo, forse a causa della morte della duchessa; e che il Baldrighi si sia fatto largamente dare una mano dal suo giovane allievo Pietro Ferrari, a cui era assai legato e che aveva preso sotto la sua speciale protezione, come narra diffusamente il Bertoluzzi; e ciò varrebbe, credo, a dare ragione delle divergenze di stile fra una tela e l’altra.
E ricordo, infine, che proprio il Ferrari attendeva ancora, poco prima della morte, a un’impresa simile, e di simili dimensioni, e cioè “un grande quadro di famiglia dell’Infante”. Che si tratti, ancora e dopo tanti anni, di questa stessa tela mai portata a termine sembra difficile da credersi, ma non impossibile.