Il dipinto faceva parte della Quadreria del medico parmense Giuseppe Rossi (1780-1850) e fu venduto alla locale Accademia di Belle Arti nel 1851 dalla figlia di questi, Angiola Rossi Beccali; al n. 14 del relativo inventario compare, senza ulteriori dati, questo Ritratto d’incognito, che Quintavalle (1939a) dice forse già nella collezione del marchese Tacoli Canacci, non producendo peraltro avalli documentari.

Fu Corrado Ricci (1896) ad attribuire la tavola a Filippo Mazzola, identificando il personaggio raffigurato nel parmense Nicola Burzio (1450 circa-post 1518), musico, poeta e letterato a lungo attivo alla corte di Giovanni II Bentivoglio e quindi guardacoro nella Cattedrale di Parma (Gallico 1985, pp. 38-41): tale proposta era giustificata dalla presenza del libro aperto in primo piano, sul quale è ben visibile un rigo musicale con il verso “Ha quante cose qui tacendo passo”, ritenuto possibile inizio di una sua composizione.

In seguito però (1898) lo studioso mette in dubbio le sue precedenti ipotesi, cogliendo nel dipinto una conduzione più disinvolta e un cromatismo diverso rispetto alla produzione ritrattistica sicuramente autografa del Mazzola, così da suggerire una collocazione cronologica a lui posteriore e il nome del giovane Parmigianino, a ragione non accettato dalla critica successiva. Allo stesso modo non ebbe seguito l’assegnazione dell’opera al primo Dosso Dossi da parte di Berenson e con Quintavalle ritorna l’attribuzione al Mazzola: egli infatti, sulla scorta di alcune osservazioni longhiane, giudica il dipinto ancora decisamente quattrocentesco, “arcaistico” nella prospettiva dello spartito e prossimo ai ritratti del pittore nonostante il giorgionismo di alcuni particolari. Anche per Heinemann il musico rientra nel catalogo delle opere mazzolesche, caratterizzate da verticalismo compositivo, mentre la Fornari Schianchi ne sottolinea la nobile dignità, propria del più raffinato ritratto intellettuale tardoquattrocentesco di tradizione veneta. Per concludere la vicenda critica dell’opera, più recentemente Bacchi e De Marchi ritengono arbitraria l’identificazione del personaggio effigiato in Nicola Burzio e non accettabile neppure la paternità del Mazzola che, morto nel 1505, “non poté mai sospingersi nella temperie sentimentale para-giorgionesca cui appartiene il dipinto” , senza peraltro proporre ipotesi percorribili.

Esatta appare invece la prima osservazione, in quanto il verso in lingua volgare, dall’innegabile cadenza neopetrarchesca, ben poco si addice alle composizioni del Burzio, di carattere encomiastico o religioso e rigorosamente redatte in latino; ma, soprattutto, uno sguardo più attento alla lirica del primo ’500 permette di individuarne l’appartenenza alla terza canzone di Lavinello tratta dagli Asolani di Pietro Bembo, opera incentrata sulla tematica dell’amore platonico, redatta a partire dal 1497, già pressoché compiuta nel 1502 e pubblicata nel 1505 (unica lieve variante è la sostituzione dell’originario “O” iniziale). Anche se solo ulteriori indagini permetteranno forse di identificare il personaggio ritratto, questi non può dunque essere il Burzio, mentre l’atteggiarsi delle labbra e l’elegante gesto della mano che sembrano alludere a un canto appena concluso, il programmatico rilievo dato al testo musicale, nonché l’abbigliamento, più da umanista che da chierico come voleva il Ricci, sembrano inserirlo in quel colto dibattito sul tema della “musica amorosa e amorosa poesia” sviluppatosi in area veneta fra letterati e artisti alle soglie del ’500: nelle figurazioni connesse alla teoria musicale, la voce umana e gli strumenti a corde venivano esaltati come rappresentativi della musica colta e armonica in contrapposizione a quella più campagnola e disordinata degli strumenti a fiato, secondo i termini della più rigorosa dottrina neoplatonica (Gentili 1990, pp. 18-19).

L’ignoto del dipinto parmense pare indubbiamente partecipe di questo clima intellettuale e, pur lontano dalle più complesse e allegoriche immagini di suonatori e cantori raffigurati da Giorgione, Tiziano, Lotto eccetera, nello sguardo indiretto ma coinvolgente, nel gesto e nel generale tono di sottile evocazione sembra lanciare un allusivo richiamo alla partecipazione spirituale, propria forse di un intellettuale della cerchia del Bembo. Anche se appare difficile collocare Filippo Mazzola in un simile contesto, il suo tardo soggiorno veneziano negli anni immediatamente precedenti la morte – postulato da Zeri sulla base di considerazioni stilistiche – cadrebbe proprio a ridosso della composizione degli Asolani, i cui versi o brani potevano invero circolare anche prima della loro pubblicazione ufficiale del 1505, per lo meno nel circuito del colto Umanesimo veneziano; non si deve dimenticare che lo stesso Bembo con lettera del gennaio 1501 inviava all’amata, Maria Savorgnan, appunto le tre canzoni di Lavinello, che potrebbero quindi aver avuto una propria e parzialmente autonoma diffusione. Il dipinto non rispecchia i modi consueti della ritrattistica mazzolesca, in genere di qualità piuttosto alta, rivolta in particolare a soluzioni di derivazione antonelliana nell’attenzione al dettaglio fisionomico e in certi effetti di luce e colore, con progressivi aggiornamenti su Bellini, Cima, Vivarini e anche Bartolomeo Montagna (Lollini 1991, pp. 39-41); pressoché costante vi ricorre inoltre un’impostazione a mezzo busto, poco al di sotto delle spalle, e lievemente di tre quarti, con parapetto in primo piano che delimita la visione.

Il ritratto della Galleria Nazionale propone invece una posizione quasi frontale e un’inquadratura più ampia, che include non solo le spalle ma anche le mani col libro, manca del consueto davanzale e soprattutto, per quanto riguarda la resa del volto, dello sguardo antonellesco dettagliatamente definito e diretto, connotandosi piuttosto per unpiù fuso trattamento pittorico, in cui i contorni non paiono nitidamente delineati e gli occhi si perdono in una sognante lontananza, grazie anche al morbido trascorrere della luce. Sia per motivi interni al fare pittorico dell’artista sia in base alle connessioni culturali sopra esposti, il dipinto sarebbe quindi da porsi fra le ultime opere del Mazzola, in un ambito di stretta ascendenza lagunare e colta ispirazione.

Scheda di Stefania Colla tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.