Il 15 luglio 1792 l’Accademia parmense di Belle Arti accoglieva “nel novero dei suoi Professori Accademici d’onore” Louise Elisabeth Vigée-Lebrun, che secondo la consuetudine donò questo piccolo dipinto, firmato e datato, espressamente eseguito per l’occasione; tale nomina costituiva un ulteriore riconoscimento del prestigio raggiunto da questa pittrice, ritrattista assai ammirata dell’alta società francese ed europea fra ’700 e ’800, che con Angelica Kauffmann condivise il titolo di artista più celebrata del suo tempo.

Avviata alla pittura dal padre, il pastellista Louis Vigée prematuramente scomparso, ricevette i primi insegnamenti da alcuni amici di questi, Davesne e Briard, ma fu soprattutto guidata dai preziosi consigli di Doyen e Vernet in una formazione libera e sostanzialmente autodidatta, basata sullo studio degli antichi maestri visibili nelle collezioni aperte al pubblico (Raffaello, Domenichino, Reni, Rubens, van Dyck) come di quelli contemporanei, fra i quali si accostò in particolare a Greuze. Già ritrattista di un certo successo, nel 1776 sposò il noto mercante d’arte e curatore delle collezioni reali Jean Baptiste Lebrun, avendo così occasione di ampliare le proprie conoscenze figurative anche grazie al lavoro del marito; fin da quell’anno entrò in rapporti con la Corte e nel 1779 eseguì il primo degli oltre trenta ritratti della regina Maria Antonietta (alcuni di carattere più intimo, altri ufficiali come quello con i figli del 1787 ora a Versailles), divenendo pittrice ufficiale della sovrana che nel 1783 ne sostenne l’ammissione all’Académie Royale.

La fortuna di ritrattista alla moda e gli stretti rapporti con gli esponenti più rappresentativi dell’Ancien Régime la costrinsero nel 1789 a fuggire da Parigi con la figlioletta, dapprima in Italia, ove rimase fino al 1792 soggiornando in particolare a Roma e Napoli, poi a Vienna e in Russia fino al rientro in Francia concessole nel 1802; nelle città toccate durante l’esilio (fu a Parma due volte, ma solo per breve tempo) la Lebrun dipinse moltissimi ritratti per fuoriusciti francesi e aristocratici europei, fra cui anche quello del segretario dell’Accademia parmense conte Rezzonico, che nella versione incisa dal Benaglia verrà posto ad apertura del primo volume dei suoi scritti (cfr. Rezzonico, Opere raccolte e pubblicate dal professor Francesco Mocchetti, Como 1815-1830); ovunque fu ricevuta con grandi onori e un’ammirazione che le valsero fra l’altro l’associazione a varie Accademie di Belle Arti, come si è detto a Parma, ma anche a Roma, Bologna, San Pietroburgo, senza contare la richiesta da parte della Galleria Granducale di Firenze del suo Autoritratto (opera notissima, del 1790, cfr. Rosenberg 1977, pp. 54-55), da porre con quelle dei maggiori artisti contemporanei.

Un successo questo legato alla sua efficace formula ritrattistica, ancora sostanzialmente improntata al gusto aristocratico e brillante della tradizione francese, ma pervasa da una nuova vitalità e tenerezza d’accenti, come da una notevole sapienza d’impostazione: abile nel saper cogliere la rassomiglianza, anche se poco interessata all’introspezione psicologica, nel valorizzare il soggetto con pose adeguate o dissimulandone le imperfezioni, la pittrice fu soprattutto sorretta da una qualità esecutiva sempre elevata, che le permetteva di comporre con saldezza, rendere le qualità tattili della materia, “modellare finemente i volti utilizzando abilmente i colori stesi con tocco morbido e brillante (Temperini 1999, p. 556). Erano questi caratteri ideali per incontrare il favore delle signore dell’alta società e infatti il suo catalogo comprende in prevalenza ritratti femminili, ma non mancano splendide immagini di uomini, come quella del ministro Calonne (Londra, Winston Castle), del musicista Paisiello (Versailles) e infine dell’amico Hubert Robert (Parigi, Louvre), “intensa idealizzazione del genio artistico espressa con realismo sconvolgente” (Sutherland – Nochlin 1979, p. 197).

Non paragonabile a tali splendidi lavori, il dipinto della Galleria Nazionale è senz’altro opera minore, ma comunque di bella fattura e significativa del fare pittorico della Lebrun: vi è raffigurata la figlia dell’artista, come anche nel quadro analogamente inviato quale morceau de réception all’Accademia di Bologna (cui era peraltro associata dal 1789), molto simile a questo per impostazione ed eseguito presumibilmente nello stesso lasso di tempo. Esso era infatti accompagnato da una lettera scritta da Parma il 1 luglio 1732, in cui fra l’altro l’autrice indicava chiaramente “c’est le portrait de ma fille” (cfr. Zamboni 1979, p. 297) e del resto una certa somiglianza fisionomica emerge anche dal semplice confronto fra queste e altre opere in cui la bambina compare, ad esempio lo splendido Autoritratto con la figlia del Louvre. Nel dipinto parmense la fanciulla è effigiata a mezzo busto e volta lievemente di spalla, con le labbra socchiuse e lo sguardo rivolto al cielo; veste un abito rosso di foggia lineare, appena impreziosito da un leggero ricamo dorato lungo lo scollo, e uno scialle ocra, secondo quello che era l’abbigliamento preferito dalla Lebrun sia nella vita che nelle sue opere.

Prediligeva infatti abiti di mussola leggera, impreziositi da fasce e sciarpe secondo la moda venuta d’Oltremanica (fece scalpore il ritratto en chemise della regina Maria Antonietta nel 1784), o semplici tuniche a vita alta ispirate all’antico, come nel già citato Autoritratto, e si deve sottolineare che la pittrice contribuì in maniera decisiva alla trasformazione dell’abbigliamento femminile in direzione neoclassica (Sutherland – Nochlin 1979, p. 198), proponendo anche alle sue clienti l’abbandono dell’elaborato vestiario rococò, e delle acconciature incipriate (vero modello di gusto fu il famoso Souper à la grecque, da lei organizzato con vasi etruschi, drappeggi all’antica e abiti classici per le invitate, quale ella stessa descrive nei suoi autobiografici Souvenirs, cfr. ed. it. Le Brun 1990, pp. 51-53). Se si esclude la vivace nota cromatica del rosso, dominano nella tela le tonalità spente, anche sul fondo in sostanza neutro se pure vagamente accennante a un cielo, tonalità che risultano particolarmente delicate nell’incarnato del volto come di consueto definito da una stesura morbida e sapienti ombreggiature; spiccano in esso i grandi occhi dal taglio un po’ allungato, tratto caratteristico di tante sue figure femminili, la cui espressione dolcemente malinconica non solo richiama un sentimentalismo alla Greuze spesso presente nella Lebrun, ma pare anche preannunciare una sensibilità già romantica. Questa affettività resta però alla superficie, affidata a un formulario un po’ ripetitivo (labbra dischiuse, viso reclinato eccetera) e all’abilità del mestiere, senza riuscire realmente a investire la sfera delle emozioni, il che conferisce al dipinto un carattere piuttosto convenzionale, già rilevato dal Quintavalle, d’altro lato parzialmente motivato dai vertiginosi ritmi di lavoro sostenuti dalla Lebrun, che non sempre riuscì lavorare al meglio delle sue possibilità.

Bibliografia
Atti… 1770-1793, p. 349;
Inventario… fine del XVIII secolo, n. 57;
Inventario… 1819;
Inventario… 1852, n. 229;
Inventario… 1874, n. 347;
Martini 1875, p. 29;
Pigorini 1887, p. 23;
Ricci 1896, p. 256;
Sorrentino 1931, p. 33;
Quintavalle A.O. 1939, p. 334;
Ghidiglia Quintavalle 1960, p. 37;
Allegri Tassoni 1979, p. 214
Restauri
1950 (L. Arrigoni)
Mostre
Parma 1979
Stefania Colla, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.