“…ivi l’attitudine di quel troppo perfetto era più sperimentale; gli si vedevan riempire gli schemi lineari con superlative, eccessive unità cromatiche, incarnati, lilla, verdi, quasi a fornire l’indizio d’un posseduto colore, d’una godutissima vegetazione…”, con questo flash Gianfranco Contini (1939, p. 240), sull’onda della mostra e delle manifestazioni correggesche tenutesi a Parma nel 1935, coglie, da esperto lettore, la precipuità quasi naturalistica ante litteram dell’ombroso boschetto che accoglie la sacra narrazione, nonché la felicità cromatica, calda e satura (una tavolozza insieme veneta e lottesca per quell’acceso arancio che si intreccia col giallo manto della Vergine) della tavola.

Potremmo aggiungere il riconoscimento implicito della sapienza narrativa di Correggio: non è forse un caso che l’esimio critico e filologo inserisca queste note all’interno di un discorso che riguarda Boiardo e Ariosto, come nel poema cavalleresco l’unità di tempo e luogo della narrazione classica viene infranta in favore di una contemporaneità intrecciata che rende il racconto stesso più fantastico, variato e seduttivo, così qui il pittore mette contemporaneamente in scena momenti narrativi diversi, situati in spazi diversi, illuminati da effetti di luce diversi.

In primo piano, declinato dalla solita intrigante diagonale, l’episodio centrale di Giuseppe che coglie i datteri dai rami della compiacente palma per rifocillare Maria e il Bambino, illuminato da una luce calda e riverberante; mentre alle spalle di Giuseppe, come scaldato da un raggio di sole che s’infiltra nel folto dei rami, un angelo lega lo stanco asinello; intanto in alto un girotondo di angeli, fra le nuvole e la luce dorata che come di consueto aprono le porte del Paradiso, glorifica l’evento sventolando un ramo della pianta amica; e non basta se rischia di sfuggirci il particolare – da cui deriva la denominazione con cui l’opera è universalmente conosciuta – dell’altro angelo che da una brocca versa l’acqua della fonte miracolosa nella scodella in grigioargenteo piombo della Vergine.

Una complessità narrativa di sapiente e originale tessitura che traduce un episodio iconograficamente inconsueto, tratto dal Vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo, già peraltro affrontato da Correggio nella tela del Riposo con San Francesco per la chiesa di San Francesco a Correggio (1520 circa), oggi agli Uffizi (inv. 1455). È proprio dal confronto tra le due opere che discende con assoluta evidenza la diversa interpretazione iconografica che il pittore, o la sua committenza, danno all’oscuro testo patristico: la chiara differenza d’età del Bambino definisce il primo, cronologicamente, come un Riposo durante la fuga in Egitto, mentre il secondo, che descrive un bambino e non più un neonato (si guardino l’intelligenza dello sguardo rivolto a noi, e la lunghezza delle gambe infantili) è indubbiamente un Riposo durante il ritorno dall’Egitto.

Se non pare possano sussistere dubbi interpretativi su questa questione, più enigmatica, e forse destinata a rimanere tale, data la scarsità di fonti documentarie dirette in relazione alla pala, permane la motivazione di questo slittamento cronologico e iconografico, a meno che non si immagini una variazione sul tema, ritenuta necessaria dall’artista stesso per aggiornare su pure ragioni di stile una formula già elaborata (si pensi alla pratica della serializzazione, macroscopico fenomeno novecentesco della produzione artistica). Sempre in rapporto al Riposo degli Uffizi scatta rispetto al nostro un’ulteriore, parallela ma anche contrapposta, differenza: San Giuseppe che nel primo appare uomo decisamente anziano dai capelli quasi bianchi, nel secondo risulta decisamente più giovane: la barba è grigia ma i capelli sono ancora castani e ricciuti, il corpo è più vigoroso. In questo caso però l’incongruenza fra i due testi è (come è stato notato, Ekserdjian 1997) da riportare a un discorso più generale di recupero iconografico e religioso della figura di Giuseppe che riguarda anche la sua stessa posizione dentro le tele di soggetto sacro: da personaggio defilato e in qualche modo in ombra, spesso molto anziano a evitare malizie pericolose, o addirittura dagli accenti comici, a protagonista.

Quale appare nella tavola della Galleria: una qualità non equivocabile, e motivata inoltre dalle più specifiche ragioni della committenza. Si ritiene infatti sia stata ordinata dalla confraternita di San Giuseppe per la cappella in San Sepolcro dedicata al santo della quale aveva acquisito i diritti: mentre già Pungileoni (1817-1821, II, p. 198) pubblicava la notizia di un lascito per l’esecuzione della pala che situerebbe l’allocazione al 1524, da ultimo Ekserdjian ricolloca la notizia all’interno di un’ampia e completa analisi della composizione e del ruolo di questa confraternita all’interno della società cittadina. Sottolineando inoltre con il dovuto rilievo la circostanza che nel 1528 la Comunità parmense aveva deciso, per invocare il superamento di una grande epidemia di peste, di dedicare la città a San Giuseppe, accolto quindi tra i santi protettori (Dall’Acqua 1984, p. 116), e come tale raffigurato dallo stesso Correggio proprio in quegli anni (1526-1530) sui pennacchi del Duomo (insieme a sant’Ilario, san Giovanni Battista e san Bernardo, erroneamente più volte identificato come san Tommaso, ma la presenza della palma e dei datteri dovrebbe bastare a dissipare lo strano equivoco, considerando che già Vasari, 1568, lo aveva correttamente riconosciuto). Questa specifica occasione e questo singolare rimando – quasi un’autocitazione – interno dovrebbero bastare a spostare in avanti la datazione della nostra tavola, al di là della discussione sui disegni (Di Giampaolo – Muzzi 1988, schede nn. 85-87), spesso interpretabili come prime idee anche lontane nel tempo, e considerando la curiosa abitudine dell’artista di ritornare spesso, anche in tempi diversi, sugli stessi schizzi.

Che certamente siano passati numerosi anni dalla primitiva allocazione alla fase esecutiva finale è dimostrato poi dall’iscrizione, che commemora la sistemazione dell’opera nella chiesa (“Divo Joseppo Deiparae Virginis custodi devoti fidiss. Coelitusq. Destinato huiusce arae comuni aere erectores devoti alacresq. erexere MDXXX Die II Juni”), sull’architettonica ancona dorata che ancora la racchiude, grazie all’intelligenza museografica e conservativa di Corrado Ricci, che la recuperava nel 1893 riunificando le due parti di un insieme pensato fin dall’origine come tale quando si consideri che ragioni stilistiche tendono ad attribuirne il disegno allo stesso Correggio (quel privilegiare ad esempio l’ordine ionico come nella Camera di San Paolo, l’eleganza classica della decorazione a grottesca dell’architrave), messo in opera dall’intagliatore parmense Marcantonio Zucchi. Senza dimenticare che il biennio dorato (1522-1524) della maturità artistica e della felicità espressiva convoglierà verso Correggio tutta una serie di richieste che verranno poi esaudite, ed esaurite nel corso degli anni successivi (è il caso del San Gerolamo, della cupola del Duomo eccetera).

Ancora a favore di una datazione fra il 1528 circa e il 1530 insiste poi l’evidenza di una sostanziosa consonanza stilistica fra il nostro dipinto e gli affreschi della Cattedrale, particolarmente risonante nella figura di Giuseppe e nel volo degli angeli, nonché nella tavolozza, naturalmente tenendo nel dovuto conto la differente qualità del veicolo tecnico e materico. E in più un’aria e un’aura da Sacra Famiglia, il presentimento e il trasparire di pensieri nuovi (singolarmente e anticipatamente controriformati) sul tema della famiglia, dell’importanza e del ruolo dei figli nel matrimonio, sul carattere sacrale e divino del vincolo matrimoniale, sulla solidarietà e unità fra i coniugi. Come non pensare che il carattere familiare, popolare ma senza equivoci populisti, quasi dimesso di Maria – così simile e diversa dall’eleganza ideale della Madonna di san Gerolamo (scheda n. 149) – per una volta in armonia con il suo sposo artigiano, si rivolga direttamente a ciascuno proponendo un modello di famiglia “normale”? Come non cogliere che è l’affetto, ancora una volta concretamente espresso nel contatto fisico, a legare, a costituire la catena che salda, benedetta dagli angeli e dal cielo, i componenti di questo nucleo familiare? Tutto ciò si condensa nel gesto, di suprema sapienza e originalità creativa, del bambino, del figlio, che sta al centro, fra madre e padre, centro focale dei loro sguardi, e con le braccia spalancate li mette in comunicazione, li unisce, vero vincolo umano fra i due sposi.

Non è forse ragionevole o pertinente chiedersi per quali strade l’artista arrivasse a tale profonda meditazione: se attraverso quella di un cultura diffusa che andava disputando sull’amore e il matrimonio, sul ruolo della sposa come Pietro Bembo nei Dialoghi Asolani (1505), o attraverso quella, più dolorosa, del vissuto personale: essendo lui stesso padre, di quattro figli, e sposo. Sposo e forse da poco vedovo: l’ultimo documento che testimonia la moglie Hieronima in vita porta infatti la data del 1528 (Gould 1976, p. 191) in coincidenza con l’epidemia cittadina, ed è certo suggestiva la tentazione di interpretare la pala di San Giuseppe anche come una poetica forma di elaborazione del lutto, nella funzione che dovevano avere, per Veronica Gambara, signora di Correggio, i versi (ed è assai probabile che il conterraneo artista li conoscesse) che piangono la morte del marito, la perdita e la nostalgia dell’amore. È in ogni caso con moderna sensibilità che Correggio sa cogliere e trasmettere un grumo di verità psicologica e poetica di costante validità, un eterno interrogativo cui, coinvolti dallo sguardo dialogante del bimbo, non possiamo e non sappiamo sottrarci.

Scheda di Luisa Viola tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.