- Titolo: Redentore risorto (Sangue di Cristo)
- Autore: Anonimo parmense
- Data: Primo quarto del XVII secolo
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 172 x 114
- Provenienza: Parma, collezione Sanvitale, 1834
- Inventario: GN 221
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Gli emiliani 1500-1600
- Sezione espositiva: Gli Emiliani 1600
Il recente restauro ha portato a recuperare la parte ripiegata sul telaio di un’elaborata incorniciatura dorata di gusto tardomanierista che circondava in origine l’immagine e che venne eliminata in passato.
Come suggerisce Lucia Fornari, la presenza di una simile soluzione potrebbe indurre a riconoscere al dipinto la funzione originaria di stendardo processionale. A una tale ipotesi porterebbe anche il carattere fortemente iconico dell’immagine, che recupera l’iconografia del Sangue di Cristo (o delle Cinque piaghe), praticata dalla pittura padana del XV secolo (Marco Zoppo, Giovanni Bellini, Carlo Crivelli, Vittore Carpaccio) e successivamente, tranne rare eccezioni, caduta in disuso: fra le eccezioni merita segnalare subito, per il risalto che potrebbe assumere in relazione al presente dipinto, il grande gonfalone dipinto da Giovan Battista Tinti per l’oratorio della Confraternita delle Cinque Piaghe di Parma, pervenuto ora a questa stessa Pinacoteca e contenente una soluzione figurativa pressoché identica (cfr. II volume, scheda n. 350).
Nella galleria Sanvitale la tela recava un’attribuzione a Michele Desubleo (Maubege 1602-Parma 1676) che è stata accolta nei successivi cataloghi a stampa della Pinacoteca (ma già l’Inventario generale annotava che “l’attribuzione al Desubleo non è del tutto convincente”) e che è stata rilanciata dalla Fornari Schianchi in un intervento del 1993. Ma fin dalla sua tesi di laurea (1972-73) Lucia Peruzzi, alla quale si deve (1986) il meritato rilancio in epoca moderna delle fortune dell’artista, aveva giustamente rigettato tale ascrizione, che non trova riscontro nei caratteri propri del pittore, tra i seguaci più originali e indipendenti di Guido Reni. Più recentemente, il nome del Desubleo è stato escluso anche da Cirillo e Godi (1995), propensi a ricercarne piuttosto l’autore “nella cerchia del Gessi”.
La paternità del dipinto costituisce in realtà un problema di soluzione tutt’altro che semplice, non risultando a nostro avviso scontata nemmeno la sua estrazione bolognese, accolta ancora da Cirillo e Godi. A un rinnovato esame dell’originale, favorito dalla migliore leggibilità consentita dal recente restauro, emerge con chiarezza la presenza di caratteri discordanti, che da un lato alludono a un sostrato di convenzioni stilistiche ancora manierista e dall’altro palesano la conoscenza di esperienze di segno più moderno. L’aspetto cinquecentesco dipende certo in gran parte dal carattere fortemente iconico dell’immagine, isolata contro il fondo uniforme come un gruppo statuario; ma si noterà che la resa del busto e delle gambe del Cristo, o lo stesso risalto cartaceo delle pieghe del manto obbediscono a un ideale di pittura levigata e integra di tipo propriamente manierista, alla Bartolomeo Passerotti. Per contro, gli aspetti più palesemente “moderni” del dipinto non sembrano sottintendere alcuna conoscenza dei modi di Guido Reni, in direzione del quale si orientano tanto il Desubleo quanto il Gessi, ma puntano piuttosto in direzione di Giovanni Lanfranco: in questo senso risulta parlante soprattutto la figura dell’angelo, caratterizzato nel volto da uno scorcio che rinvia a soluzioni tipiche del pittore parmense. Ma anche il viso di Cristo, colto in un’espressione di dolorosa meditazione, e il naturalismo con cui sono restituite le mani si giustificano in questa chiave.
Nasce da queste considerazioni l’ipotesi che il dipinto appartenga a un seguace parmense del Lanfranco finora non individuato: educatosi in patria, e quindi senza aver potuto trarre vantaggio dal prolungato soggiorno romano che rese possibile la maturazione delle prerogative di Sisto Badalocchio, forse suo coetaneo, egli dovette essere suggestionato dalle novità importate a Parma già nel corso del secondo decennio da Lanfranco così da renderne conto in questo dipinto, che pure testimonia anche della sua più antica cultura. Non si può a questo punto escludere che, stante la presenza di una stessa iconografia e di un partito decorativo, a quanto si può ancora valutare, abbastanza prossimo, la tela in esame abbia costituito una riedizione in minore, oltre che stilisticamente aggiornata, del gonfalone del Tinti sopra citato e che ne condivida dunque la stessa provenienza dall’oratorio parmense delle Cinque Piaghe. Una ricerca documentaria orientata in questa direzione potrebbe in futuro risolverne anche il problema attributivo, che qui si lascia necessariamente aperto.