- Titolo: Redentore
- Autore: Anonimo napoletano
- Data: seconda metà secolo XVII
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 68 x 52
- Provenienza: Parma, collezione Dalla Rosa- Prati, 1851
- Inventario: GN 887
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Nell’Inventario della collezione dei marchesi Dalla Rosa-Prati redatto in occasione della vendita all’Accademia di Belle Arti di Parma (1851) il dipinto è menzionato come “Testa di un Salvatore di autore incerto”, figurando tra quei quadri ritenuti dal corpo accademico di scarso interesse artistico, “l’acquisto dei quali o punto non importerebbe… o poco”; stimato inizialmente 50 lire nuove, fu infatti acquistato per sole 20 lire.
Una somma davvero esigua per un’opera che Ricci (1896) assegna a Bartolomeo Schedoni, forse in considerazione della ricerca naturalistica che caratterizza il volto del Redentore e del contrasto chiaroscurale che costruisce il volume della figura.
Manca tuttavia nel quadro quella luce ferma e nitida che scolpisce plasticamente le forme, rendendole più sode e consistenti e che lo stesso Ricci in un altro saggio riconosce come una delle qualità più tipiche del pittore modenese, rilevando nei suoi dipinti la presenza di “ombre acerbamente contrapposte a chiari rosseggianti”. Inoltre i “volti larghi forati da occhi troppo tondi e troppo scuri…” dei suoi personaggi mal si accordano con il viso allungato del Cristo e con il colore pallido, tutt’altro che “rosseggiante” del suo incarnato.
In un articolo del 1929 inerente ad alcune opere d’arte ignote o poco conosciute Adolfo Venturi si discosta infatti totalmente dall’attribuzione di Ricci, identificando il dipinto come uno “tra gli esempi più rari della spiritualità che distingue nel Seicento l’arte di Mattia Preti”, eseguito durante il soggiorno modenese del pittore che secondo recenti ritrovamenti documentari è da circoscriversi agli anni 1651-52, e non come precedentemente supposto dalla critica, compreso in un lasso di tempo più ampio, fra 1653 e 1656.
Venturi sottolinea in modo particolare l’aspetto “astratto”, simile a un’icona del Cristo, che “par impresso ancora sull’antico italo-fiammingo, passato traverso l’Italia quattrocentesca, da Antonello a Melozzo”, rimarcando inoltre la gamma cromatica dalle tonalità fredde e “plumbee”, priva di quei “gridi di colore che più spesso egli trae da un rosso intenso, lacerante, fra i rosa argento, gli azzurri siderei, i bianchi lividi della sua tavolozza”, risolti qui in un unico contrasto fra il bianco dell’incarnato e l’azzurro indaco del manto.
Senza respingere le indicazioni proposte da Venturi, Quintavalle (1939) preferisce più prudentemente ascrivere l’opera a un autore attivo nell’ambito del Preti (trasferitosi a Napoli nel 1653 e divenuto ben presto un punto di riferimento fondamentale nell’ambiente artistico cittadino), piuttosto che ritenerla autografa, considerando anche la mancanza in questo quadro di una delle qualità primarie della pittura del calabrese: la materia densa e pastosa del colore, steso in pennellate rapide ed efficaci, nonostante il taglio del volto e una certa “crudezza delle ombre e delle luci” possano accostarsi al suo stile.
Il dipinto si presenta oggi in pessime condizioni; malamente rifoderato forse nel corso dell’800 e sottoposto a un intervento di pulitura troppo energico che ne ha fortemente impoverito la materia cromatica, appiattendo l’immagine.
La parte destra del quadro mostra inoltre evidenti tracce di ossidazione, mentre sul lato opposto cadute di vernici e alcune ridipinture con un colore più fluido e trasparente ne compromettono ulteriormente la lettura.
Appare evidente nonostante ciò la scelta di una gamma cromatica accordata sulla dominante di toni freddi e grigiastri, come è confermato dall’uso di particelle di colore blu nella stesura dell’incarnato del viso, che contraddistingue anche l’arte di Mattia Preti, rivelando le suggestioni della pittura veneta e della cultura emiliana contemporanea, di Guercino in particolare.
Il suo naturalismo, meno severo e rigoroso di quello dei caravaggeschi e venato di un tono più espressivo e sentimentale, ben si riflette nell’atteggiamento assorto e vagamente malinconico del Cristo, illuminato da una luce grigio-argentea proveniente da sinistra che lascia affiorare lentamente le forme, che acquistano così un notevole risalto plastico sul fondo scuro. Una soluzione luministica che, nonostante le cattive condizioni del dipinto, consente di collocare quest’opera nell’ambito napoletano della seconda metà del ’600, un’ipotesi che può trarre conferma anche dalla presenza dell’iscrizione riportata sul retro della tela che ne attribuisce la proprietà al signor “A.b. Conti”. Si tratta forse di quell’Ab. (da leggersi probabilmente come Abate) Conti Giuseppe citato nel Dizionario dei Parmigiani Illustri dello Janelli come “antico ripetitore” del collegio Lalatta e docente di Meccanica pratica all’Ateneo di Parma. Come socio del Real Istituto d’Incoraggiamento di Napoli egli aveva frequenti contatti con la città partenopea, dove si stabilì in seguito per insegnare Fisica all’Università. Forse proprio in questa occasione, in vista di un suo trasferimento definitivo, il quadro fu ceduto ai marchesi Dalla Rosa-Prati.
Si tratta comunque di un’immagine devozionale legata a una committenza privata, in quanto l’iconografia del Redentore benedicente a mezzo busto, nella fissità frontale della posa accentuata dal taglio ravvicinato dell’immagine, è piuttosto arcaica e inconsueta a questa data. (C.C.)