Il tema del ratto o rapimento ha uno sviluppo sorprendente soprattutto nei secoli XVII-XVIII e ha come base letteraria l’aneddotica storica greco-romana. Fra quelli pittoricamente più declamati si ricordano il ratto di Briseide, Europa, Dejanira, Proserpina, delle Sabine e di Elena appunto, tanto è vero che lo stesso Sebastiano Ricci si confronta con quasi tutte queste tematiche prima o dopo la realizzazione del nostro quadro.

È un soggetto assai richiesto, per la carica erotica che contiene e per la possibilità di sviluppare articolate anatomie, oltreché per dilatare la scena oltre al fatto vero e proprio, includendovi brani di paesaggio, aspetti architettonici, e la messa in scena di molti personaggi fino a farne una sorta di tableau vivant, dove la crudezza del passo principale si mescola con la mobilità generale di tutte le comparse. In ogni rapimento, pur nell’adesione al brano letterario di riferimento, il pittore ha la possibilità di comporre numerose varianti che danno sfogo alla sua creatività e a una visualizzazione del racconto sempre diversa.

Il Ricci inaugura questo tema a partire dal 1700 circa con due versioni del Ratto di Briseide (già Colnaghi e Nizza, coll. privata) e con il Ratto di Proserpina (Milano, coll. Zecchini), di contenute dimensioni, quasi una prova della tenuta del soggetto, e di messa a punto delle strategie compositive, per le quali si avvale di importanti modelli barocchi come quelli di Luca Giordano e Pietro da Cortona e altri vasti riferimenti alla cultura tosco-romana, che diventano ancora più rilevanti nel Ratto delle Sabine (Venezia, Palazzo Barbaro Curtis) addirittura passato per lungo tempo sotto il nome dei due artisti più celebri del ’600. Nel nostro quadro la protagonista è Elena di Troia, mitologica figlia di Leda e Giove, sorella dei Dioscuri nota per la sua proverbiale bellezza che Omero paragona a quelle delle dee immortali e che fu sottratta da Paride al marito Menelao, re di Sparta, fino a provocare la guerra di Troia. Si racconta, infatti che pur di riportarla allo sposo i Greci prepararono una spedizione, con relative conseguenze, che durarono vent’anni.

L’iconografia qui adottata è fedele al racconto: Paride stringe fra le braccia la recalcitrante Elena per condurla sulla barca ormeggiata in un approdo naturale, roccioso, mentre i suoi compagni gli guardano le spalle e gli altri trattengono la barca puntando i remi sul fondo o aggrappandosi a un sostegno, mentre le Nereidi fanno da cornice alla scena calmando le acque del mare per consentire la fuga: un atto di “brigantaggio di razza” approvato da Afrodite (cfr. Brunel 1995, pp. 246-257). Questa composizione manca di qualsiasi rimando al filone storicistico poussiniano e all’ideale classico, è piuttosto una levigata immagine che “affonda” in Rubens, rimanendone in superficie.

La critica non è stata sempre benevola nel valutare quest’opera, ritenendola troppo accademica e priva di emozioni, datandola ante 1704, agli stessi anni cioè della Continenza di Scipione e di Apelle che ritrae Pancaspe della stessa serie. A noi pare che non manchino i brani di eccellenza, nel soldato, in forte tensione muscolare che “pianta” il remo o in quello che trattiene la barca aggrappandosi a un puntone di legno, oltreché nell’abbraccio dei due protagonisti, nell’Elena discinta che tenta di divincolarsi, ma che appare più preoccupata di farsi male e di rovinare le sue carni candide che del rapimento e nel paggio che reca il cofanetto con i gioielli: pur nella foga nella concitazione, nell’imprevisto non si abbandonano gli ornamenti preziosi. Il caldo mare della Grecia accoglie questo barcone sgangherato, ma di antica e nobile fattura, ornato com’è da una polena alata e da un cordone di foglie d’alloro intrecciate. È un albeggiare lieve, una luce rosata, che si confonde con lo sciabordio delle onde, che accompagna una fanciulla di rara bellezza verso un destino nuovo, inconsapevole della lotta che si scatenerà fra greci e troiani, coinvolgendo l’intero empireo degli dei che si schiererà ora con gli uni ora con gli altri e permettendo all’epica di Omero di porre in esametri il più bel poema dell’antichità. È il dipinto della serie che il Ruta (1740) valuta di più, 500 filippi.

Bibliografia
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Santangelo 1934, p. 267;
Pallucchini 1952, p. 70;
Martini 1964, p. 152;
Pallucchini 1969, pp. 288 sgg.;
Zampetti 1969, pp. 8-9;
Ghidiglia Quintavalle 1972;
D’Arcais 1973, p. 21;
Rizzi 1975, p. 21;
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Daniels 1976b, p. 93;
Pilo 1976, p. 31;
Ceschi Lavagetto 1979, p. 27
Restauri
1973 (A. Santunione)
Mostre
Venezia 1969;
Parma 1972;
Parma 1979
SCHEDA DI LUCIA FORNARI SCHIANCHI TRATTA DA FORNARI SCHIANCHI L. (A CURA DI), GALLERIA NAZIONALE DI PARMA. CATALOGO DELLE OPERE. IL SETTECENTO, FRANCO MARIA RICCI, MILANO, 2000.