- Titolo: Porta di San Bertoldo
- Autore: Maestranze di cultura copta o islamica
- Data: Inizi del XII secolo
- Tecnica: Incisione lignea
- Dimensioni: 227 x 103; 230 x 100; spessore 10
- Provenienza: Parma, chiesa di Sant’Alessandro
- Inventario: GN1812
- Genere: Scultura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Antelami e il suo tempo
La porta lignea si compone di due ante con doppi montanti di uguali dimensioni (cm 33 x 227/230) raccordati da quattro traverse con incastro a mortasa e tenone (a scomparsa nello spessore, tranne in due casi dove è visibile), formanti tre specchiature rettangolari per parte, un tempo occupate da pannelli di cui oggi è superstite un solo esemplare al centro dell’imposta sinistra. In alto, da lato a lato di ciascun battente, sono presenti grappe metalliche a U di rinforzo, riferibili a interventi di consolidamento, e qua e là si notano fissaggi con chiodi e cavicchi.
Si può ipotizzare che fosse a battenti liberi, poiché non rimane alcun tipo di serratura, e i margini di ogni anta sono lisci, a sezione rettilinea verso l’interno, stondata verso l’esterno. Non sono superstiti neppure i cardini. Mentre il retro è privo di ornamenti, la fronte dei montanti è lavorata a intaglio e incisioni (ad eccezione della traversa superiore destra che è aniconica), con una decorazione a tralcio abitato, composto da girali fitomorfi arricchiti di foglie e grappoli d’uva in cui sono inseriti volatili, quadrupedi ed esseri fantastici, alcuni dei quali difficilmente leggibili. La definizione del girale contempla nella parte mediana della sinusoide una cornucopia da cui fuoriesce un secondo tralcio che completa la voluta a formare degli spazi circolari chiusi, entro cui è collocato il mondo zoomorfo che li popola: sono riconoscibili pavoni ed equini, forse anche pegasi, il cui corpo, che segue la curvatura del girale e si intreccia con le foglie e i grappoli, è sottolineato da arabeschi simili a marchiature, così come nel tralcio sono evidenziate le nervature e rilevati i pampini. In molti casi gli animali sono abbinati, sovrapposti o rampanti, in formule di chiaro horror vacui che non sempre giustifica la disposizione: nel primo stipite dell’anta sinistra si contano undici girali, mentre nel secondo soltanto dieci; talvolta le volute stesse terminano a protome zoomorfa.
La lettura analitica dell’intaglio non è facile per la consunzione del pezzo, soprattutto nella parte bassa, o a causa di fratture. In ognuno dei settori principali il racemo popolato (cm 20) è delimitato verso l’esterno, e per tutta l’altezza, da una cornice (cm 4) con pseudomatassa a doppio nastro e perlinatura centrale (a S correnti), mentre all’interno un’altra a zigzag (cm 3,5) – formata da due incisioni parallele a cui si sovrappone una linea ondulata con orbicoli sottostanti – delimita anche la luce delle specchiature alternandosi con la precedente che sopravvive negli strombi delle stesse. L’assenza della profilatura al tralcio nella parte interna in corrispondenza delle traverse (cm 40 x 30) consente la continuità in esse del motivo che si raccorda con quello verticale, pur nella minore dimensione (cm 16). Nei settori orizzontali infatti le volute generate da medesime cornucopie contengono gli stessi elementi fitomorfi e simili riempitivi, tranne nel primo in alto dell’anta destra (cm 40 x 24) dove, pur connettendosi, il modulo usato (cm 13,5) racchiude solo foglie lanceolate e polilobate. Il pannello rimasto, inserito con l’incastro a scomparsa, presenta, rilevato dal piano di fondo (cm 4), un albero centrale a cui sono specularmente opposti e divergenti, in basso due quadrupedi dal capo retroflesso, in alto forse due pavoni di cui si vede solo la coda.
Pur con evidente difficoltà di lettura, soprattutto per la scarsità di resti tipologici simili, non è mancato nel tempo, a partire dal secolo scorso, l’interesse per questa insigne testimonianza: la prima menzione della porta (Ronchini 1852) fornisce dati sulla sua provenienza dalla chiesa del monastero femminile di Sant’Alessandro, un tempo nell’area dell’attuale Teatro Regio, di cui fu custode l’oblato benedettino Bertoldo, contemporaneo del vescovo parmense Bernardo degli Uberti (1106-1133). Tali notizie sono fondate sulla Vita di Bertoldo al quale fu rivolto, subito dopo la morte, grande culto di cui la porta costituirebbe una reliquia. Da alcuni studiosi essa è attribuita alla prima fase di vita del monastero, che si ritiene fondato dalla regina Cunegonda nell’835 (Pelicelli 1897; Zimmermann 1897), mentre la maggior parte la assegna all’inizio dell’XI secolo (Venturi 1902; Testi 1905; Ferrari 1910; Toesca 1927; Carli 1960; Bandera 1972). Per quanto riguarda la cultura e i modelli di riferimento sono state fatte ipotesi di influenze orientali (Porter 1917; Brandi 1977). Oltre all’accenno di presenza fra i resti medievali della Galleria Nazionale di Parma (Fornari Schianchi 1989), in occasione di mostre sono state fatte schedature del manufatto (Capitani 1983, Branchi 1991) che sottolineano influssi copti e islamici di epoca fatimide, sostenendo una datazione tra la fine del X e il terzo quarto dell’XI secolo.
Benché la porta cosiddetta di San Bertoldo sia una testimonianza che non trova riscontri nell’area di appartenenza, esempi di produzione lignea sono nella Sicilia del XII secolo (Scerrato 1993; Ventrone Vassallo 1993), oppure nell’Egitto copto (Enciclopedia… 1994, V) e a Gerusalemme (Grabar 1989) fra i lavori a intaglio di ambito arabo. Ma essa, proprio per il tipo di soggetto rappresentato nei suoi elementi, poté trarre ispirazione anche dalla tradizione bizantina nota attraverso attestazioni in avorio, stoffa e stucco. Il tralcio abitato era infatti presente già nella cattedra di Massimiano di Ravenna (VI secolo) a incorniciare i pannelli figurati (Farioli Campanati 1990) e altri ornamenti che compaiono nelle nostre cornici si ritrovano spesso nella produzione eburnea tardoantica e medievale (Rizzardi 1990). Inoltre la disposizione araldica degli animali del pannello superstite mostra chiare tangenze con decorazioni scultoree di ambiente bizantino, come ad esempio nelle lastre di stucco di Santa Maria dei Terreti (Museo Nazionale di Reggio Calabria), dove uguali quadrupedi sono opposti a una pianta entro orbicoli paralleli e tangenti (Farioli Campanati 1982).
Non esistono tuttavia elementi probanti per attribuire la porta lignea parmense a una produzione islamica, ipotesi rafforzata dall’abbondante presenza di equini fra i racemi del tralcio. Ma questi animali sono noti anche alla simbologia cristiana, sia il cavallo che, da immagine ctonia, è ereditato come soggetto solare nei testi sacri e nelle rappresentazioni funerarie con valore di vittoria finale, sia l’asino utilizzato nelle fonti come cavalcatura anche regale, oppure come simbolo negativo dei vizi della pigrizia e della lussuria (Heinz-Mohr 1984). Per questa ragione non v’è motivo di dubitare che anche qui il tralcio popolato raffiguri l’ambiente ordinato entro cui sono disposte, senza regola, le creature di quel mondo buono e cattivo di cui solo il Dio cristiano tesse la trama (Caillet 1995).
La diffusione di questo motivo decorativo nel Medioevo, a sottolineare la pressante esigenza di ordine per vincere il peccato e i vizi, non esclude che anche la porta lignea parmense sia un brano di produzione locale, sicuramente colto, che si allinea con gli stessi temi iconografici presenti negli stipiti dei portali delle cattedrali romaniche; la sua apparente diversità, soprattutto nell’aspetto marcatamente bidimensionale e rigido, può essere frutto di una tecnica di lavorazione su un materiale la cui resa era forse ancora incerta in quel periodo e in quel territorio.
Quanto alla datazione attualmente non ci sono palesi ostacoli all’accettazione che essa sia coeva al personaggio a cui è storicamente legata, vissuto all’inizio del XII secolo.