L’affresco, gravemente lacunoso nella sezione inferiore, è coronato da diverse modanature geometriche e fitomorfe e da una lunga e complessa iscrizione purtroppo illeggibile. Dinanzi a un altare, sormontato da un polittico cuspidato, un agostiniano sembra indicare il calice con una mano, mentre con l’altra pare reggere la particola; un suo confratello invece tiene fra le dita un oggetto minuscolo. Intorno si dispongono altri personaggi: un’agostiniana e un uomo scrutano intensamente e con meraviglia la mensa dell’altare. Dietro, due gentildonne e una coppia conversano in atteggiamento misterioso, mentre alcuni astanti si appressano al celebrante. Davanti a un elegante coro ligneo due agostiniani cantano leggendo un antifonario, aperto su di un leggio monumentale.

La Ghidiglia Quintavalle, identificando l’episodio, di incerta iconografia, come la rappresentazione della Messa di Bolsena, lo attribuisce a un maestro bolognese della fine del XIV secolo, da lei ribattezzato Maestro dell’Inferno. Mentre chi scrive ha espresso dubbi sulla proposta iconografica della studiosa, il Gibbs, di rimando, è tornato all’ipotesi della Quintavalle e ha ricondotto l’episodio a un atelier di artisti modenesi di cultura tomasesca, vicini al maestro della Madonna della Misericordia nella chiesa di San Giovanni in Canale a Piacenza. Il Boskovits ha invece assegnato l’affresco a Bartolomeo e Jacopino da Reggio, interpretando genericamente la scena come una celebrazione della Santa Messa. Da ultima la Lottici Tessadri, accettando l’attribuzione di Boskovits, lo ha datato alla metà degli anni cinquanta, per i rapporti assai stretti con la tavola raffigurante la Crocifissione della collezione Kisters di Zurigo, nel modo di panneggiare spigoloso e talora metallico e nelle fisionomie dagli occhi allungati e dolci, dai nasi affilati e dalle deliziose bocche imbronciate. Per ciò che riguarda l’iconografia, la studiosa ha avanzato un’ipotesi assai interessante e suggestiva, secondo la quale la scena, un’allegoria della Penitenza, sarebbe da leggersi in stretta relazione con i due successivi affreschi (schede nn. 26 e 27), strappati dalla stessa parete e raffiguranti l’Inferno e il Paradiso. Nel Medioevo era in uso infatti lasciare dei sassolini sulla mensa degli altari, a testimonianza del numero di preghiere recitate per penitenza dopo  la confessione. Nel nostro caso sulla mensa potrebbero essere dipinti tali sassolini e quindi l’episodio starebbe a indicare che solo con la Penitenza è possibile salvarsi dall’Inferno e aspirare al Paradiso. La rappresentazione mostra affinità sorprendenti con la Madonna della Misericordia e San Giovanni Battista nella chiesa di San Giovanni in Canale di Piacenza e con la Madonna, di uguale soggetto, posta sopra la porta della sagrestia sulla parete meridionale del deambulatorio della chiesa di San Francesco di Piacenza, in cui tornano le medesime fisionomie puntute e affilate e le stesse cromie terse e metalliche. È possibile inoltre individuare ulteriori analogie con un altro affresco della muratura meridionale della chiesa di San Francesco, in corrispondenza delle cappelle del Battistero e della Madonna di Loreto, quasi totalmente scialbato e quindi in larga parte illeggibile, che sembra rappresentare un Giudizio universale nella sezione inferiore.

Scheda di Antonella Gigli  tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.