- Titolo: Natura morta con selvaggina, pesci, funghi, bacile con frutta e punta di formaggio
- Autore: Bartolomeo Arbotori
- Data: 1640-1660
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 100 x 195
- Provenienza: Piacenza, mercato antiquario, 1987
- Inventario: GN 2103
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La natura morta e Boselli
L’affollata ostensione paratattica degli alimenti ordinatamente disposti, in entrambi i casi, secondo due piani sovrapposti segnalati e sottolineati da gradoni in pietra costituisce l’equivalente visivo della paratassi descrittiva ma immaginifica, iperbolica ma rigidamente elencatoria, di certi passi poetici di Giovanbattista Marino.
E in effetti qualcosa di tardomanierista o primo barocco caratterizza queste sontuose e suntuarie nature morte dalla quasi monocroma e un po’ livida brunastra tonalità, che inseriscono preziosismi lessicali quali il pavone o gli scoiattoli e sofisticati oggetti d’oreficeria; espedienti illusionistici quali le zampe rigidamente protese del pollo spennato (in consonanza con Baschenis, si veda scheda in Evaristo Baschenis… 1996, pp. 170-171) una delle quali, vera prova d’abilità, si staglia con effetto di rilievo sul cornicione in pietra; il virtuosismo esibito nella resa delle diverse rugosità della buccia delle zucche cetrioli e frutta, delle linee sinuose e serpentine, ben oltre il naturale, delle canne del sedano.
Mi pare inoltre che anche una certa freddezza e distanza oggettivante, priva di pathos sia pure naturalistico o tattile, una certa atmosfera di algido esibizionismo, modulando la lucida minuzia fiamminga in una pittura compatta e povera di dettagli “ottici”, possa rientrare in una dimensione stilistica che rimane ancorata ad esempi sostanzialmente arcaici (a tale proposito cfr. Benati, in Cristoforo Munari… 1999, pp. 44-46, che propone al confronto anche esempi romani tardocaravaggeschi). In quest’ottica la questione del rapporto con le cucine di Baschenis (posto da Ravelli 1986-87 e 1998, che presume addirittura un alunnato del secondo dal primo), sembra ipotesi di fatto marginale: anche se tangenze ci sono, incolmabile risulta la distanza di concezione, pensiero, fare e qualità che distingue i due artisti. Se possiamo provare ad avanzare dei nomi, con l’inevitabile alea delle tuttora scarsissime notizie accertate, è in direzione appunto dell’arte fiamminga di genere, dalla fine del ’500 largamente presente nelle collezioni dell’Italia settentrionale (due soli esempi ma conosciutissimi: i Farnese e Federigo Borromeo), del cremonese Vincenzo Campi e della sua bottega, di quell’Andrea Benedetti, dato dalle fonti come parmense, documentato ad Anversa fra il 1636 e il 1649, tornato poi nella patria d’origine e forse anche presente a Roma, dove potrebbe essere venuto in contatto con il fare monumentale, su sfondo paesaggistico, di Abraham Brueghel o di Michelangelo da Campidoglio.
Proprio il Benedetti, purtroppo un’altra personalità non del tutto chiarita (Biagi Maino 1989, p. 408) e un catalogo certo ad oggi molto ridotto, potrebbe costituire un buon antefatto e un tramite per l’Arbotori: le date funzionano così come l’inserimento di oggetti preziosi (in particolare la brocca, cfr. l’opera, già firmata, pubblicata in Cristoforo Munari… 1999, p. 155, e p. 110) e altri elementi lessicali, pur risultando Benedetti molto più elegante, preciso, controllato, articolato, e nella grafia e nella composizione, rispetto al piacentino che sembra elaborarne una versione dialettale. Le nostre tele sono costruite entrambe secondo un punto di vista leggermente ribassato, presentano un formato allungato e misure praticamente identiche: forse in origine erano sovrapporte, il che da un lato legittima la lettura in parallelo (confermato da una distribuzione dei volumi sostanzialmente in controparte), mentre dall’altro ci riporta alla funzione essenzialmente decorativa e d’arredo che dovevano rivestire entro palazzi nelle cui stanze le pareti di maggior prestigio erano ancora destinate ai grandi generi: la pittura sacra, mitologica e d’historia. Tele criticamente importanti tuttavia queste, perché firmate, per delineare la personalità di uno specialista pressoché sconosciuto fino ad anni relativamente recenti (Fiori 1971b; Arisi 1973).
Intorno ad esse infatti si va ricostruendo un possibile catalogo, reso più problematico da tangenze e sovrapposizioni con la prolifica produzione del più noto Felice Boselli, forse suo allievo nella fase iniziale della sua fortunata carriera, certo in qualche modo erede della bottega e della clientela del più anziano maestro in quel di Piacenza. La sigla Arbotor inoltre chiarisce l’identificazione grafica di un cognome ampiamente deformato (Robatori, Rovertore, Arbotore, Arbottoni) sia negli antichi inventari (Campori lo chiama sia Rovertori che Rovertore di Piacenza) che in testi anche recenti, permanendo tuttora la dicotomia nominalistica fra Arbotoni e Arbotori (cfr. bibliografia). Il linguaggio sostanzialmente eclettico del nostro costituirà senza dubbio il punto di partenza per il più dotato Boselli, con una differenza, oltre a quella ovvia dello stile, importante sul piano della costruzione compositiva: il punto di vista generalmente un po’ ribassato del primo, che comunica il senso di un ordine mancato, di un horror vacui sinonimo di fragilità conoscitiva, di una congestione di oggetti incombenti, si rialza nelle opere del secondo di quel tanto che basta a favorire l’inquadratura completa delle cose, l’oggettiva “padronanza”, tradotta in visione, dell’esperienza del mondo. In questo passaggio cruciale, e aldilà delle distinzioni di stesura e di stile, la natura morta attinge il suo momento più maturo e consapevole.