Recensendo il Salon del 1759 Diderot si esprime in termini assolutamente lusinghieri nei confronti di questa grande e scenografica tela, ne apprezza in particolare “le beau choix des figures”, “le moelleux des draperies”, “la richesse surprenante du coloris”.

Ed effettivamente il successo immediatamente conseguito vale all’artista l’ingresso alla prestigiosa Académie parigina nonché, tramite la mediazione del conte de Caylus, celebre connoisseur e antiquario (autore di un testo fondamentale per la cultura soprattutto artistica della seconda metà del secolo in Francia e l’insediarsi in essa del goût grec, Recueil d’antiquités égyptiennes, étrusques, grecques, romaines et gauloises 1752-1757), l’acquisto dell’opera per la Corte di Parma (cfr. carteggio tra il ministro DuTillot e il banchiere parigino Bonnet, in Bédárida).

Pare che Doyen fosse passato da Parma nel 1756, al ritorno da Roma verso Parigi, e si fosse soffermato con particolare interesse sugli affreschi del Correggio, forse in quella circostanza si era prefigurata una sorta di commissione aperta da parte di una Corte intenzionata a ricostruire una collezione prestigiosa e degna del ruolo che intendeva svolgere nel panorama europeo. A Roma, presso l’Académie di Francia dal 1752 dopo aver vinto a Parigi il secondo premio nel 1748 e dopo aver frequentato l’Ecole des Elèves protégès diretta da Carle van Loo, Doyen aveva studiato Raffaello (in particolare le Stanze), Pietro da Cortona, Domenichino e Luca Giordano, aveva visitato Bologna e Venezia, dove certo avrà amato Tiepolo e magari anche Paolo Veronese. Certo qualcosa di italiano emana da questa tela creata con grande concentrazione e in quasi totale isolamento, sarà il suo morceau d’agrément una volta rientrato a Parigi, e non soltanto per il soggetto “romano”, estrapolato da Tito Livio.

La anima infatti una sorta di classicismo drammatico, patetico come una tragedia di Metastasio, eloquente nelle dinamiche gestuali ed espressive, nella tavolozza calibrata e regolata in funzione retorica, quali l’accordo bianco rosa oro che caratterizza l’innocente eroina ovvero l’alone rossastro che circonda Appio Claudio. Una regia altrettanto accurata governa le forme antiquarie dello sfondo, delle suppellettili e dei “costumi”, un’attenzione precocemente filologica, romana e repubblicana: l’episodio infatti racconta del decemviro romano Appio Claudio, il cui comportamento viene stigmatizzato da Livio per le angherie perpetrate nei confronti della plebe romana, che perseguita con le proprie attenzioni la bellissima Virginia, figlia del plebeo Lucio Virgino. Il padre, per sottrarla definitivamente al disonore, la uccide, e questa morte è causa di una sollevazione popolare che pone fine alla tirannia dei decemviri (intorno al 450 a.C.). È proprio nella scelta stessa dell’episodio che si annida quel rinnovarsi della funzione della Historia magistra vitae e dell’eroe/eroina (preferibilmente tragico secondo la tradizione tutta francese di Corneille e Racine), exemplum virtutis che porterà tutta la cultura della seconda metà del secolo a rileggere Tacito e Livio, che porterà agli Orazi di David (1784), certo attraverso Poussin e con ben altro rigore.

Dietro la metafora storica poi è facile leggere un tema caro ai philosophes, quello della libertà personale contro il potere e l’oppressione, il valore della virtù e della morte come testimonianza etica, dunque argomentazioni quanto mai nei tempi, per certi versi fortemente anticipatrici; può risultare addirittura straniante ascoltarle e riconoscerle in questa declinazione linguistica ancora sostanzialmente “cortigiana”. Non ci stupirà allora sentir risuonare un eccesso di verve, individuare nella tela di Doyen qualche caduta: ad esempio il padre di Virginia risulta delineato secondo il tipo e gli abiti del “barbaro” (cotta di maglia metallica, barba eccetera), e non, come sarebbe corretto, quale popolano romano. Ma è piccola questione, il successo della tela, le parole di Diderot rispecchiano la reale novità dell’opera in un Salon in cui, su 124 opere esposte in tutto, solo 3 erano soggetti di storia, 17 religiosi, 8 mitologie galanti… Tanto più che già dal 1747 (anno in cui viene pubblicato Rèflexions sur quelques causes de l’état présent de la peinture en France del critico La Font de Saint-Yenne) la direzione dell’Académie richiamava gli allievi a una maggiore moralità, a esercitarsi con maggiore continuità e severità sui generi maggiori, tralasciando i minori pur così richiesti dal mercato. Nel 1759 il curatore del Salon, cioè colui che materialmente decideva dove e come sistemare le tele, era Chardin, purtroppo è impossibile sapere cosa ne abbia pensato, mi piace immaginare che le abbia riservato un posto d’onore, in fondo all’inizio della sua carriera anche lui aveva tentato il grand genre…

Da allora Doyen diventa un pittore alla moda, continuando a sfruttare la vena antiquaria ma in una direzione sostanzialmente ripetitiva e iperbolica, accentuando quegli eccessi patetici rilevabili solo in nuce nella nostra tela (ad esempio gli occhi iniettati di sangue o il pugno teso del giovane a fianco di Virginia), ancora trattenuti evidentemente dal fresco ricordo della misura italiana. Così già a proposito del Miracle des Ardents, eseguito da Doyen per la chiesa di Saint Roch e trionfatore al Salon del 1767, Diderot rivede il suo giudizio e, in un confronto con Joseph-Marie Vien, conclude che “Doyen, le second [dopo Vien] dans la grande machine, mais je crains bien qu’il ne soit jamais le premier”, consigliandogli di essere “plus harmonieux, plus sévère, moins fougueux, moins éclatant”; e ancora più duramente a proposito dell’opera esposta al Salon del 1781 “… ce dernier tableau blesse les yeux tant il papillote, c’est un amas tumultueux et confus de figures… y vous ressentez la furia francese [sic!]”. Sapeva essere tranchant Diderot quando voleva, ma non è da meno, e non solo per gelosia professionale evidentemente, lo sfortunato Julien de Parme, che in una lettera (Rosenberg 1997a, p. 104) da Parigi del 1773, dopo una visita al Salon, considera: “Il Signor Doyen ha scelto una strada completamente diversa, ma non per questo migliore. Cercando i grandi effetti, un disegno molto sentito, un colorito dorato; egli non trova di fatto che durezza, un disegno scorretto e caricato alla francese e un colorito giallo e rosso, il più sporco e di maniera che io abbia mai visto. Senza espressività, senza nobiltà, non gli resta che un’aria di facilità e di fragore, che si può imporre a degli occhi poco lungimiranti, ma che non ingannerà mai dei veri intenditori”. Tuttavia i suoi successi a Corte continuano: proprio nel 1773 viene nominato premier peintre del conte d’Artois e nel 1775 del fratello del re, e solo dopo l’89, perdendo pubblico e commissioni, assistendo al sorgere dell’astro di David e non più in sintonia con il radicale cambiamento in corso, intraprende un lunghissimo viaggio, accetta il posto di professore all’Accademia imperiale di Pietroburgo, dove muore nel 1806. (L.V.)

Bibliografia
Diderot 1759-1781, p. 68;
Baistrocchi 1780, c. 8;
Affò 1794, p. 99;
Ricci 1896, p. 1;
Quintavalle A.O. 1939, p. 14;
Bédárida 1928b, ed. 1986, II, pp. 495-496;
Sandoz 1975, pp. 31-32, n. 15; Rosenberg 1979a, pp. 153-154;
Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 202;
Diderot et l’Art… 1985, pp. 179-181;
Ceschi Lavagetto 1990, p. 244;
Temperini 1999, pp. 569-570