- Titolo: Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino
- Autore: Antonio Allegri, detto il Correggio
- Data: 1524 circa
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 157 x 182
- Provenienza: Parma, abbazia di San Giovanni Evangelista
- Inventario: GN353
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Il mito di Correggio
La corona di spine giace di fianco alla mano del Cristo deposto, un’altra corona, simbolo consueto insieme al giglio, ma è ancora di spine, è impugnata dall’angelo che scende rapido a posarla sui nuovi martiri, Placido e Flavia. È dunque il tema del sacrificio e del martirio come percorso alla salvezza a regolare il rapporto testuale fra le due tele Del Bono: attraverso il simbolo i due, pur non guardandolo, si specchiano nel Cristo che hanno di fronte.
Nello specifico poi, la scelta dell’episodio desueto è certamente legata a un suggerimento del committente, monaco col nome appunto di Placido. Un’ulteriore identificazione, virtuale questa, o forse un atto di vanità religiosa, certamente sorretta da una sapienza assai vasta e avvertita, guida il Del Bono a scegliere dal Martirologio romano un episodio lontano nel tempo ma in quegli anni riproposto alla devozione dei teologi e dei fedeli, protagonisti alcuni primi cristiani il cui culto veniva sollecitato dalla congregazione cassinese (Di Giampaolo – Muzzi 1993) come exemplum virtuoso. In breve: i quattro martiri nascono figli del senatore romano Tertullo, Placido fu uno dei primi discepoli di san Benedetto e, presi gli ordini, se ne andò a Messina, poi raggiunto dalla sorella Flavia e dai fratelli che ne condividono la missione di evangelizzazione, quindi, nella Sicilia aggredita dagli infedeli, per i quattro fratelli non c’è scampo. È l’episodio finale quello prescelto da Correggio e dal suo committente, funzionale a illustrare non solo il sacrificio cristiano, ma anche quello della “difesa della vera fede”, così assolutamente nei tempi e moderna nell’epoca della minaccia luterana da una parte, musulmana dall’altra.
Un fine narratore, di grande abilità nel coinvolgimento del suo pubblico si rivela in realtà Correggio tanto nella scelta dell’istante drammatico in cui la violenza esplode, quanto nell’impaginazione scenica che, dopo una prima versione più convenzionale e simmetrica (documentata dal disegno del Louvre, inv. 5914) privilegia il taglio in diagonale. Una diagonale che, più tortuosa e intrigante in profondità che lineare sulla superficie, parte dalla testa recisa del giovane martire e si conclude nella spada impugnata dal crudele carnefice di Placido, in un crescendo drammatico che ci trascina all’interno della violenta scena bloccata. Entro questa diagonale gli sguardi si incrociano: quelli dei carnefici sulle vittime, quelli delle vittime diretti verso l’angelo che, dall’esterno, non tanto di fianco ma di fronte a loro (con taglio prospettico di grande audacia), tributa loro il giusto premio. Una diagonale che riprende, ma in controparte, lo schema del Compianto, accentuando ancora – come altri segnali già sottolineati – la complessa dialettica testuale che si instaura fra i due dipinti, rendendo in qualche modo pleonastica la mera questione filologica di stabilirne una presunta scansione cronologica (perlopiù viene ritenuto precedente il Cristo deposto e successivo il Martirio, salvo Ekserdjian 1997 che ribalta i termini del problema).
Una stretta contestualizzazione che non si limitava ai due laterali ma prevedeva pure la decorazione del sottarco: medaglione centrale raffigurante Cristo in gloria, rivedendolo, sembra illusionisticamente girarsi verso il suo futuro, messo in scena nel Compianto, entro il consueto drappeggio di nuvole, e due riquadri con la Conversione di san Paolo e i Santi Pietro e Giovanni Evangelista, caratterizzati da notevole arditezza ideativa ma da una qualità esecutiva che lascia non pochi dubbi attributivi, variamente risolti a favore dell’uno o dell’altro dei collaboratori (Francesco Rondani e Michelangelo Anselmi) già attivi per il fregio della navata. Ma ciò che stringe in una sola stagione creativa le due tele è soprattutto la surriscaldata temperatura emotiva, è il sorgere di quella poetica degli affetti che si proietterà poi con potenza suggestiva sul secolo successivo, è la forza dei sentimenti messi in scena quasi senza pudore.
E quali sentimenti sono più forti, fatali e trasgressivi, nel loro contrasto, della violenza e dell’estasi? Alle due coppie carnefice-vittima sulle quali si bilancia tutta la scena corrisponde, rafforzandosi nell’iterazione, l’intreccio fra la brutalità del gesto efferato e l’accettazione consapevole e consenziente, ambiguamente prossima al godimento, delle due aggraziate figure inginocchiate. Mentre un effetto inquadratura simmetrico a quello del Compianto lascia intravvedere, e più immaginare, i resti straziati di Eutichio e Vittorino (e le teste staccate non possono non ricordare l’orrore esibito di certe Giuditte di Artemisia Gentileschi), un vento rapinoso pare trasportare l’angelo – stranamente per una volta un angelo senza nuvola – recante il premio del martirio: la promessa della salvezza. Lo stesso vento che lucida il mosaico dei colori accesi e cangianti intersecati in un gioco che si fa talvolta dissonante (l’arancio incandescente del mantello della santa con il rosso del suo esecutore), comprime il cielo percorso da ondate di un blu violetto tempestoso e marino così intenso da assumere al nostro occhio viziato risonanze antistoricamente preromantiche: Böcklin, Füssli, Turner…
Ancora una volta la natura, non impassibile, partecipa all’evento tragico estratto dal buio della storia da una luce quasi a flash che scandisce il primo piano con effetti di controluce sui corpi dei protagonisti in primo piano. Soprattutto sulla silhouette elegante ed efficace dello sgherro sulla sinistra che, se da un lato non può non ricordare gli straordinari lanzichenecchi declinati da Pordenone sulle pareti del Duomo di Cremona (intorno al 1521), dall’altro si ritrova, con emozione, negli affreschi di Trescore eseguiti da Lorenzo Lotto intorno al 1524: negli episodi relativi a Santa Caterina d’Alessandria la decollazione avviene ad opera di un soldato ripreso in posizione assolutamente simmetrica al nostro, specie nel feroce braccio destro che si distende per imprimere maggior forza al colpo, mentre la testa, di profilo, si gira a fissare la vittima, e il braccio sinistro si apre in un gesto quasi di danza.