“…al vivo è espresso nella Maddalena il pentimento e nel Fariseo l’ammirazione. Maestosa è la figura di Cristo e tutte le altre figure sono ben disegnate e colorite”: così nel tardo ’700 Baistrocchi descrive il dipinto, allora posto sull’altare maggiore della chiesa di Santa Maria Maddalena, o delle Carmelitane, dicendolo opera del pittore parmense Giovan Battista Tinti.

Dal contratto di allogazione si apprende che la tela venne commissionata dalla Compagnia della Madonna della Steccata il 24 settembre 1592, al fine di assolvere all’onere testamentario di cui l’aveva gravata un benefattore, consistente appunto nel far eseguire una pala da porsi “super altari cappella magna” della suddetta chiesa. Il Tinti si obbligava a dipingere “quella historia che essendo andato Christo dal fariseo a mangiare St.a M. Maddalena vi andò a lavarli i piedi” per un compenso di 70 scudi d’oro, ricevendone in acconto 35, e si impegnava a consegnare il lavoro per la successiva festività della santa, il 22 luglio 1593; il termine non venne probabilmente rispettato, dal momento che il saldo è documentato al 7 giugno 1595 (Archivio Ordine Costantiniano di San Giorgio, Rogiti, vol. X, cc. 561-565 e vol. XII, cc. 126-128).

Questo incarico da parte della più importante confraternita cittadina dimostra la stima di cui godeva in tale ambito il Tinti, che indubbiamente fu esponente di un certo rilievo dell’ultimo manierismo parmense, nonostante un catalogo piuttosto limitato di opere certe e sebbene manchi alla sua produzione un carattere di forte creatività; non a caso la critica ha spesso definito “eclettica” la sua cultura, sottolineandone peraltro la vasta preparazione che fa di lui non un “anticipatore”, ma un rappresentante “della più matura, tranquilla ed equilibrata pittura del secondo 500 italiano” (Fornari Schianchi 1986b).
Non fu insensibile alle nuove esigenze di chiarezza e semplificazione compositiva espresse dalle formulazioni tridentine, che agirono in un certo senso come fattore unificante della sua arte, rendendola particolarmente gradita proprio a quelle confraternite religiose ove con netto anticipo si erano avvertite istanze di rinnovamento spirituale (Pietrantonio Fortunati 1982, p. 99) e che in effetti costituirono la quasi totalità delle sue committenze.

Fin dal suo primo lavoro documentato, gli affreschi raffiguranti l’Assunzione della Madonna nella chiesa di Santa Maria degli Angeli (1588), il Tinti mostra quali siano le basi della sua formazione, avvenuta fra Parma e Bologna: in un impianto compositivo correggesco si inseriscono figure che rimandano a Tibaldi e Samacchini, ma anche desunzioni da Anselmi, dai cremonesi Campi, fiamminghismi. Secondo il Lanzi (1834, t. IV, p. 93) suo primo maestro fu appunto Samacchini, a Parma negli Anni settanta per gli affreschi nel transetto settentrionale del Duomo, che lo condusse a Bologna ove studiò l’opera di Tibaldi (Malvasia 1841, t. I p. 170, rimprovera al Tinti quasi un plagio di quest’ultimo nei perduti affreschi in Santa Maria della Scala), venendo peraltro in contatto anche col fare di Sabatini o di Calvaert e coi lasciti della cultura vasariana. Ma le suggestioni delle componenti parmensi, Correggio, Parmigianino, Bedoli e Anselmi e anche Bertoja si affiancano sempre a quella bolognese, arricchendosi inoltre di diversificati apporti.

Il dipinto della Galleria Nazionale è opera della maturità, che ben esprime questa vasta cultura: la strutturazione scenografica della composizione con ampio fondale architettonico riporta a Tibaldi, come pure alla vasariana Cena di san Gregorio in San Michele in Bosco, anche se il punto di vista elevato e il forte scorcio della parete paiono legarsi alle articolate strutture di Samacchini e Sabatini. Ne consegue un effetto di scivolamento spaziale verso il primo piano, non limitato da quinte, nel quale il riguardante è coinvolto con una visione concentrata sui tre protagonisti, Fariseo, Cristo, Maddalena, e sul sottile rapporto gestuale che li lega. La Maddalena ci appare in un equilibrio instabile e in una posizione che sembra derivata in speculare dalla figura di San Francesco nel Perdono di Assisi (ampiamente vulgato anche in incisione) del Barocci, artista al quale rimanderebbe anche il putto con anfora sulla sinistra (Feroldi), ma soprattutto il carattere narrativo della scena, in cui i personaggi sono variamente disposti attorno al tavolo con una naturalezza che umanizza l’evento sacro. La resa delle singole figure resta comunque di ambito strettamente parmense nella raffinatezza delle linee, in alcuni estrosi dettagli dell’abbigliamento, nella tipologia stessa che pare rimandare soprattutto al Bedoli (in particolare il gruppo sulla sinistra, pur non essendo ripresa puntuale, si accosta a quello della Sibilla nella pala dell’Immacolata Concezione, mentre la figura femminile rivolta allo spettatore pare una versione locale della Maddalena di Raffaello nella pala di Santa Cecilia); un evidente spunto di naturalismo connota invece il Fariseo, di forte caratterizzazione fisionomica ed espressiva. Pienamente consonante al gusto del Manierismo e tipico del pittore è poi l’uso di un cromatismo intenso e contrastante, dominato da tinte acide, con effetti cangianti e contrappunti tonali non estranei ai modi fiamminghi, cui è prossima anche la descrizione minuziosa della mensa imbandita.

Del dipinto, la Galleria Nazionale conserva anche il disegno (inv. 631), acquistato nel 1851 con la Quadreria Dalla Rosa-Prati e già allora riferito al Tinti, forse identificabile con quello stesso disegno che il contratto dice dato in garanzia dal pittore alla Compagnia della Steccata. Presso la Galleria Estense di Modena esiste poi una tavoletta (inv. 459) di soggetto pressoché identico alla tela parmense, della quale è stata considerata bozzetto preliminare (Quintavalle; Ghidiglia Quintavalle 1967a), anche se pare esatto riconoscervi un fare diverso da quello del Tinti (Ghirardi) per una generale rigidezza di forme e un’insistita attenzione al particolare descrittivo; potrebbe piuttosto trattarsi di una derivazione, magari dallo stesso disegno in considerazione di più precisi riscontri (mancano in entrambi alcune figure).

A seguito della soppressione napoleonica del 1810 la chiesa di Santa Maria Maddalena venne chiusa al culto e demolita, mentre il dipinto figura nella Note des tableaux… trasportati in Francia; tuttavia documenti successivi non lo riportano fra quelli esposti a Parigi e una lettera lo dice addirittura sconosciuto (cfr. Carteggio presso la Soprintendenza di Parma e Piacenza). Secondo Testi passò per qualche tempo in Steccata e quindi nella locale Accademia, dove parrebbe segnalato dal de Lama già nella tavola illustrante la sua proposta di riordino del 1812 (tav. I), antecedente quindi al rientro delle opere trafugate.

Il quadro figura poi nell’inventario del 1820 e in quelli successivi del 1852 (attribuito al Bertoja) e del 1874; a seguito del trasferimento nell’ex monastero di
San Paolo (Pigorini) utilizzato per deposito ed esposizione, del dipinto si perdono temporaneamente le tracce e si verifica uno scambio di identificazione con una tela di uguale soggetto – ma ignota provenienza – sempre attribuita al Tinti (inv. 880, vedi scheda successiva), che viene pubblicata da Ricci (1896) e Venturi (1934) come la pala della chiesa di Santa Maria Maddalena. Finalmente nel 1948 Quintavalle “riscopre” il quadro fino ad allora rimasto in San Paolo, riproponendolo all’attenzione della critica con la corretta identificazione.

Scheda di Stefania Colla tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.