- Titolo: Maria Maddalena ai piedi di Gesù in casa del Fariseo
- Autore: Giovan Battista Tinti
- Data: 1592 ca
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 224 x 146
- Provenienza: ignota; già in Galleria nel 1820
- Inventario: GN880
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
La concomitanza del soggetto ed evidenti somiglianze fra quest’opera di ignota provenienza e la documentata pala della chiesa di Santa Maria Maddalena hanno avvalorato una sua attribuzione al Tinti, portando addirittura a confondere le due tele fra loro.
Il dipinto figura già in un inventario dell’Accademia Parmense del 1820, che non riporta indicazione dell’autore o dell’originaria collocazione e lo dice depositato in un magazzino (la pala suddetta risulta invece esposta al pubblico); nei successivi inventari (1852 e 1874) viene invece anch’esso attribuito al Tinti e nel Catalogo di Pigorini (1887) risulta trasferito in San Paolo insieme all’altro dipinto di uguale soggetto. Di quest’ultimo si perdono poi le tracce per alcuni decenni (verrà riscoperto da Quintavalle nel 1948 e reso noto come “inedito”), mentre la tela in esame continua a figurare tra le opere della Galleria: alla fine del secolo infatti Ricci la cita nel suo catalogo e le riferisce erroneamente le notizie documentate relative alla pala proveniente da Santa Maria Maddalena, generando in tal modo un equivoco che persiste anche col Venturi (e ancora col Quintavalle nel 1939).
Considerata la minore qualità del dipinto, si spiega così il giudizio piuttosto severo dei due critici nei confronti del Tinti, di cui apprezzano “una certa abbondanza nella composizione”, lo “sforzo di costruzione articolata”, una “certa vivacità di colore”, ma sottolineano carenze e durezze disegnative, squilibri e asprezze cromatiche. Finalmente nel 1948 con la mostra dei Dipinti noti ed ignoti viene correttamente individuata nella tela rimasta fino ad allora in San Paolo (inv. 881) la documentata pala di Santa Maria Maddalena, ma di questa si mantiene l’ascrizione al Tinti e una datazione prossima al 1592, anno di commissione della suddetta (Feroldi).
Molti sono gli elementi di contatto fra i due quadri, ma evidenti anche le discrasie: in primo luogo ritorna anche qui un fondale architettonico piuttosto complesso di matrice bolognese, con citazione vasariana nel vano a nicchie e scale in controluce oltre l’arco e forse anche il ricordo dell’anta d’organo con Santa Cecilia, dipinta da Procaccini per il Duomo di Parma, nell’accenno di esedra con drappo sulla sinistra; tuttavia, rispetto alla pala documentata, l’andamento della parete appare meno coerente da un punto di vista prospettico e poco coordinato con lo scorcio della mensa.
Anche in questo dipinto inoltre le figure sono disposte attorno al tavolo e atteggiate nel dialogo, mentre in primo piano Cristo su di un sedile a gradini e la Maddalena inginocchiata ai suoi piedi ripropongono, sia pure ribaltata, la stessa situazione della tela di sicura autografia. La resa pittorica risulta peraltro assai differente, e qui la visione è come irrigidita, stereotipa nei volti e nella gestualità (il Fariseo ad esempio non presenta alcuna significativa caratterizzazione espressiva), minuziosa e sovrabbondante nei particolari, il cane, il gatto con topolino fra le zampe, i gioielli in primo piano, gli oggetti e i cibi sulla tavola, descritti tutti con attenzione fiamminga, ma in sostanza calligrafici e privi di vita; la stessa Maddalena, tipicamente manierista e “tintesca” nella drammatica torsione o nel forte risalto cromatico e luminoso, pare denotare un fare più pesante nonché forme inconsuetamente massicce, a contrasto con la più esile ed elegante figura del Cristo.
A questo dipinto manca in ultima analisi quella conduzione fluida che è propria del Tinti, come la sua raffinata gamma cromatica di tinte acide e cangianti (la maggiore uniformità di stesura si lega peraltro all’abrasione della superficie, in alcuni punti talmente priva di velature da dare l’impressione di un non finito): parrebbe quasi che una prima idea e impostazione compositiva del pittore sia stata sviluppata e condotta a termine da altro artista, evidentemente imbevuto di un’analoga cultura tardomanieristica, nonché avvertito delle opere e dei modi del Tinti, di cui viene riproposta la stessa tipologia dei personaggi; o ancora potrebbe trattarsi di una derivazione dalla pala della chiesa di Santa Maria Maddalena, opera di grande qualità e originale invenzione, cui senza dubbio l’ambiente artistico locale non rimase insensibile. L’autore andrà allora cercato fra quei pittori di poco più giovani del Tinti, attivi alle soglie del nuovo secolo ma ancora legati al “tardo manierismo cinquecentesco”, che “propongono un linguaggio narrativo moderato” aderente alla nuova cultura della Controriforma (Fornari Schianchi 1993, p. 42), quali ad esempio i due fratelli Bernabei e in particolare, per motivi cronologici, Pier Antonio che, nato nel 1567, ben poteva aver avuto contatti con l’opera del Tinti; che nelle sue opere più note, affreschi in Santa Maria dei Servi e degli Angeli o nella chiesa del Quartiere, sembra proporre un generale ripensamento della tradizione cinquecentesca locale; che nella Pentecoste dell’oratorio dei Rossi tratteggia figure per gestualità e tipologia accostabili a quelle del dipinto in esame, come anche il fondale architettonico.