- Titolo: Madonna della Misericordia fra i santi Alberto di Trapani e Angelo di Licata
- Autore: Fra Battista Spagnoli
- Data: Fine XV secolo
- Tecnica: Affresco staccato
- Dimensioni: 323 x 253
- Provenienza: Parma, ex chiesa del Carmine; in Galleria dal 1968
- Inventario: GN1895
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Dal Medioevo a Leonardo Ala Ovest
Il pittore, già ricondotto a una matrice foppesca (Ghidiglia Quintavalle 1968), è in effetti mantovano: l’opera è il pezzo più antico di un gruppo stilistico che comprende, in sequenza, due laterali di polittico con San Bernardino e san Gerolamo, Sant’Antonio da Padova e san Paolo della Pinacoteca Malaspina di Pavia (inv. 154 e 155), una serie di Storie della Passione smembrate – l’Ultima Cena e la Cattura di Cristo già a Roma in collezione Spiridon, provenienti dalla collezione Gallotti a Sant’Alessio di Pavia, Cristo davanti ad Anna già a Milano dall’antiquario Sasso, Cristo davanti a Caifa della Walters Art Gallery di Baltimora (inv. 37.481), un frammento con Pilato che si lava le mani già a Parigi sul mercato antiquario, la Crocifissione dell’University Art Museum a Princeton (Zeri 1966-67), Cristo davanti a Pilato del Museo di Palazzo d’Arco a Mantova (Tanzi 1984, pp. 16-18) e una Lavanda dei piedi recentemente identificata da Everett Fahy (New York, Sotheby’s, 30 gennaio 1997, lotto 124) – due pannelli con San Bernardo e un santo vescovo già a Verona in collezione Ravicz, un Cristo in pietà fra i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista (New York, Wildenstein), la lunetta di una pala d’altare con Cristo in pietà fra la Vergine e san Giovanni dolente dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte (inv. 1698).
Tale corpus è stato precisato da Alessandro Galli (1995), che ne ha giustamente distinto l’autore dal cremonese Antonio della Corna con cui veniva confuso, battezzandolo Maestro di Palazzo d’Arco.
L’affresco è impoverito dallo stacco e diminuito nella sua varietà cromatica, in favore di un tono rossiccio troppo dominante; poco sotto la vita della Vergine si riconosce la delimitazione di una pontata, che corrispondeva al livello superiore dei piedritti. Presenta un’iconografia squisitamente carmelitana: ai lati sono Sant’Alberto di Trapani (canonizzato nel 1457), con un ramo di gigli, e Sant’Angelo di Licata (canonizzato verso il 1467), distinto dalle spade con cui venne colpito a morte, già equivocati come Sant’Antonio da Padova e San Pietro martire; la Vergine stessa, coronata da due angeli, veste l’abito del Carmelo, con il manto chiaro e non già berrettino secondo l’uso strenuamente difeso dalla congregazione mantovana. Proviene infatti dalla chiesa del Carmine, notevole edificio gotico costruito e poi ampliato fra ’300 e ’400 (Da Mareto 1978, pp. 41-43; Marchesi 1996), dalla lunetta ogivale al sommo della parete laterale di una cappella, la terza o più probabilmente la seconda a sinistra, che era dedicata a Sant’Alberto di Trapani, raffigurato alla destra della Vergine (Inscrizioni… XVIII secolo, c. 35): il profilo dell’ogiva è identico, mentre la larghezza maggiore della parete (quasi tre metri) si spiega probabilmente con il restringimento dei peducci e con la presenza di un’incorniciatura illusionistica più cospicua. Il pittore era ben consapevole del punto di vista fortemente ribassato, che ha enfatizzato nello scorcio dei piedi della Vergine, sull’orlo del piano di posa, e nella finzione un po’ arrischiata di un ambiente voltato a crociera, al di là di un arco di accesso a tutto sesto, decorato al sommo da fregio fitomorfo e a delfini affrontati di gusto antiquario, sì da regolarizzare l’ogiva gotica, sottolineata da una modanatura continua rosso mattone. Già questa ambiziosa impaginazione, insieme al risalto sbalzato delle figure, eccessivamente metallico e al limite della caricatura nei volti dei raccomandati, denuncia un volontaristico aggiornamento sull’arte di Mantegna che doveva suonare anomalo nell’attardato ambiente parmigiano, come evidenzia il confronto con i modesti affreschi datati 1485, commissionati dai Palmiseri, tuttora superstiti sopra l’accesso della seconda e terza cappella destra della stessa chiesa del Carmine.
Dello stesso pittore penso sia pure la Madonna col Bambino in gloria fra gli angeli del Museo di Palazzo d’Arco, per solito riferita a Niccolò Solimano (Amadei 1980, p. 134), un artista veronese ampiamente attivo a Mantova, che presenta una cultura strettamente parallela. Veronese è invece l’Imago Pietatis del Museo di Castelvecchio (inv. 301), riferitagli dal Galli (1995, p. 280), da collegare a un’Arma Christi, in parte a rilievo ligneo, nella chiesa di San Lorenzo a Verona e a un frammento di cassone del Cleveland Museum of Art (inv. 16.790). Nell’affresco di Parma soprattutto il volto di Sant’Angelo presenta una fisionomia dalle labbra leporine e dalle palpebre inferiori cerchiate, che è caratteristica del pittore; tipico è inoltre il modo di lumeggiare molto marcato, che risalta con decisione i profili dei nasi, delle palpebre superiori e via dicendo; anche le spezzature insistite delle pieghe tubolari nelle vesti, quasi svanite nella sezione inferiore delle figure inginocchiate ma ben visibili nei due santi carmelitani, trovano ampi riscontri, sebbene qui presentino un fare più minuto imputabile alla datazione precoce, fra settimo e ottavo decennio. È probabile invece che le Storie della Passione si collochino già verso la fine del secolo, mentre la lunetta di Francoforte, che in precedenza avevo accostato ad Angelo Zoppo (De Marchi 1995, p. 73, nota 9) ma che già Luciano Bellosi mi suggeriva di riferire a questo maestro, presenta sul retro la trascrizione di una data 1503 tutto sommato attendibile. Tale data è accompagnata da due iscrizioni antiche, forse risalenti allo smembramento della pala: “Bathista Mantovano carme. / pictor e poeta sacer. / 1503” e “Baptista Spagnoli Mantuanus pinxit” (ringrazio Jochen Sander per queste informazioni).
Eminente figura della spiritualità carmelitana, Battista Spagnoli fu a capo della congregazione mantovana e poi come Generale dello stesso Ordine (dal 1513 alla morte): letterato quanto mai fecondo accreditato presso i Gonzaga, autore di innumerevoli versi latini, si sarebbe dedicato pure alla pittura secondo una controversa tradizione che rimonta al Donesmondi (1612-1616, II, pp. 121-122: “fu anche intendentissimo della pittura, onde veggonsi nel Carmine opere eccellenti in questa professione da lui fatte”; vedi inoltre Coddé 1837, pp. 138-139, secondo cui “fiorendo allora in Mantova il grande Mantegna si pose sotto la sua disciplina, e ne contraffece assai bene lo stile” e gli affreschi visibili al Carmine prima della distruzione avrebbero raffigurato in particolare “un San Sebastiano con tre mezze figure di altri santi di gusto mantegnesco”, e infine: Volta 1807-1838, II, pp. 299-300; Susani 1818, pp. 18 e 120; Marchetti 1951; Saggi 1954, p. 152, nota 220; Faccioli 1962, 197-198, nota 100). Tale opinione venne ampiamente dibattuta nell’800, quando l’erudizione locale, già prontamente contraddetta dal d’Arco (1857, I, pp. 51-52), provò a riferirgli la Deposizione mantegnesca in Sant’Andrea a Mantova e un quadro con le Esequie del beato Bartolomeo Fanti (preteso padre spirituale dello Spagnoli, morto nel 1495), già nella collezione di Gaetano Susani, quindi in quella della marchesa Giovanna d’Arco (riprodotto in Faccioli 1962,fig. 12; ma sulla mitografia fiorita intorno a questo personaggio rimando allo studio più approfondito che ha in preparazione Giovanni Agosti).
Le iscrizioni sul retro della tavola di Francoforte aprono uno spiraglio sulla consistenza effettiva di tale tradizione. L’identificazione, che si avanza qui con tutte le cautele proprie di un’ipotesi di lavoro, è incoraggiata dal fatto che lo Spagnoli, prima di passare a Bologna, fu priore del convento di Parma nel 1471 (Perez de Castro, XVIII secolo, c. 55v), una data che potrebbe ben convenire all’affresco in questione, di cultura indubbiamente mantovana, come il tono blandamente mantegnesco e le affinità con Niccolò Solimano contribuiscono a suffragare. Le tangenze di Battista Spagnoli con Mantegna sono del resto attestate dal carme che gli dedicò, In Andream Mantiniam pictorem (Kristeller 1902, pp. 491-493, nr. 10, con data verso il 1490) e si infittirono probabilmente al tempo della comune permanenza a Roma (1486-1489), nella curia di Innocenzo VIII; sulla lettura distorta della poesia Ad divam Virginem si fonda invece l’opinione secondo cui il carmelitano avrebbe commissionato un dipinto a Mantegna per farne dono al Santuario di Loreto (“tua progenies duplici sub imagine” si riferisce infatti alla doppia specie eucaristica e non già a un dipinto con la Sacra Famiglia, fantasiosamente identificato con una tavola nel Museo Diocesano di Recanati da Patrizi 1928, pp. 44-58).