Una lunga serie di errori accompagna la vicenda di questo dipinto, eseguito dal pittore parmigiano Giacomo Antonio Spiciotti per la cappella della Beata Vergine della Concezione nella chiesa di San Francesco del Prato fra il 1554 e il 1556.

Il quadro è l’unico rimasto di questo artista pressoché sconosciuto, a testimonianza di un certo apprezzamento da parte dell’ambiente locale, vista l’importanza della commissione proveniente dai membri di una Confraternita illustre come quella della Concezione.

Ciò nonostante già nel secolo successivo si perde ogni memoria del suo autore; Mauro Oddi nelle note pubblicate sulle pitture esistenti nella città di Parma la ricorda infatti come opera di uno sconosciuto “Spirito Gentile”, senza aggiungere null’altro. Nel corso del ’700 il dipinto viene variamente attribuito a Giorgio Gandini del Grano, a Michelangelo Anselmi, autore dei pennacchi nella volta della cappella, a Francesco Maria Rondani o a Girolamo Bedoli e anche quando viene assegnato a Spirito Gentile (Sanseverino e Baistrocchi) finisce per essere confuso con quello posto sull’altare di fronte, raffigurante i Santi Antonio e Francesco.

Sul finire del secolo Affò giunge perfino a dubitare che possa essere realmente esistito un pittore noto come “Spirito Gentile”, deridendo coloro che vi avevano creduto, in particolare l’autore della Descrizione dei cento quadri che “bene parlò solo se dir volle di un bello spirito in pittura”.

Agli inizi dell’800 Bertoluzzi scioglie finalmente la questione, chiarendo ogni dubbio; “Spirito Gentile – egli scrive – non era altrimenti il cognome di un pittore; ma bensì un soprannome aggiunto al cognome di famiglia” come si legge in uno “squarzetto” tratto dai libri di spesa della Congregazione in cui è registrato un pagamento di quattro lire imperiali avvenuto in data 31 ottobre 1555 “a mesero Jachomo Antonio Spiciot dit Spirit Zintil per la taula di San Machario”. Seguono poi le note di altri pagamenti per una cifra complessiva di cento lire imperiali, l’ultimo dei quali “per integro pagamento” a saldo dei lavori compiuti risulta effettuato nel luglio del 1556.

Nessuna incertezza permane neppure sulla provenienza dell’artista poiché Bertoluzzi riporta al foglio 27 l’atto di nascita e di battesimo (avvenuto in data 3 agosto 1520), conservato presso la cancelleria del battistero di Parma.

Per ciò che riguarda invece il soggetto del quadro e i fraintendimenti di coloro che non hanno saputo riconoscere la figura di san Macario, scambiandolo talvolta con san Gerolamo, essi mostrano “di aver confuso la mitra col cappello e d’ignorare essere questa la Cappella dedicata a San Macario”.

Il santo, raffigurato nel dipinto come un eremita, con la barba lunga e un abito fatto di “rozze pelli sdrucite” è infatti da identificarsi con Macario il Grande, monaco egiziano vissuto nel IV secolo che all’età di circa trent’anni si ritirò nel deserto di Scete, nel Basso Egitto, dando vita a una grande comunità monastica che ebbe notevole importanza per lo sviluppo del monachesimo egiziano.

La presenza della mitra vescovile e del pastorale in mano al putto in primo piano si riferiscono probabilmente al suo ruolo di fondatore e di abate del monastero di Scete ma potrebbero invece ricollegarsi a un altro Macario detto l’Alessandrino, vescovo di Gerusalemme, anch’egli vissuto nel IV secolo (morì nel 333), con cui l’Egiziano viene frequentemente confuso.

Per quale motivo i confratelli della Concezione avessero deciso di dedicare un altare a San Macario, la cui iconografia è piuttosto inconsueta, non ci è noto e nessuno degli studiosi locali pare in grado di chiarire le ragioni di questa scelta, che potrebbero forse trovare una giustificazione negli scritti del santo, lettere, omelie, preghiere e trattati, molti dei quali ritenuti tuttavia apocrifi.

Il soggetto della tavola nasconde probabilmente un significato che va ben oltre il tema della “sacra conversazione”: se la presenza di san Francesco è facilmente giustificabile nella chiesa a lui dedicata, di più difficile comprensione risulta invece la scena che si svolge sullo sfondo a sinistra, ambientata in un paesaggio campestre, dove un monaco francescano è intento a contemplare la sommità di una colonna corinzia che – secondo Bertoluzzi – è quella su cui san Simeone, monaco siriano detto appunto lo Stilita, visse per oltre quarant’anni, predicando alle folle che qui si riunivano richiamate dalla Sua Santità.

Appare ora più significativo il fatto che in primo piano san Francesco poggi il piede sinistro su un capitello corinzio, attributo che non è legato solitamente alla sua figura; si tratta forse della medesima colonna, da intendersi dunque come simbolo di fortezza, fermezza di spirito e costanza piuttosto che come riferimento allo Stilita?

Dal punto di vista stilistico l’opera manifesta con chiarezza la sua appartenenza alla tradizione figurativa locale; pur nella diversità delle attribuzioni gli scrittori parmigiani più antichi rilevano in maniera concorde la matrice correggesca di questa tavola, ritenuta di notevole pregio artistico. “Lodevole esempio dell’arte dello Spiciotto” – la definisce infatti Scarabelli Zunti – secondo cui l’artista parmigiano “non è certo stato l’ultimo per qualità tra i discepoli del divin Correggio”; un’ipotesi piuttosto difficile da sostenere dal momento che quando l’Allegri lasciò la città di Parma (1530) lo Spiciotti aveva solo dieci anni.

La critica più recente tende invece a riconoscerne il vero maestro in Girolamo Mazzola Bedoli, attraverso il quale Spiciotti avrebbe dunque filtrato anche la lezione di Correggio, sottolineando tuttavia la qualità più modesta della sua pittura.

Mancano infatti nel dipinto l’invenzione, l’eleganza, la capacità descrittiva e il cromatismo brillante del Bedoli, mentre l’influsso di Correggio sarebbe limitato – secondo Sorrentino (1932-33) – soltanto all’imitazione dei putti, sia quelli che si trovano ai piedi del trono sia quelli che, fra le nuvole, si dispongono in cerchio a sorreggere il telo sul capo della Madonna.

Le figure, definite da un disegno nervoso e “non sempre corretto”, mostrano una certa durezza di modellato; anche la resa degli atteggiamenti appare piuttosto statica e innaturale, come risulta evidente nella posa del Bambino e nella figura di san Francesco, accentuata dalla rigidità dei panneggi della veste. Meglio delineato appare invece il personaggio di san Macario, il cui volto rivela una più marcata ricerca di caratterizzazione espressiva.

La gamma cromatica, priva di quella luminosità e di quegli effetti di morbido sfumato che possono derivargli dall’esempio della lezione correggesca, è intonata su un registro espressivo piatto e monocorde; nonostante ciò, pare un po’ eccessivo il giudizio di Quintavalle che parla “di colori stridenti e disambientati” frutto di “una fantocciosa imitazione” e di “una fiacchezza ingenita di questo mediocre pittore”, che ai suoi tempi doveva godere tuttavia di una notevole stima, come confermano le poche notizie rimaste sulle commissioni da lui eseguite.

Un quadro raffigurante la Madonna col Bambino e santa Caterina si trovava infatti nelle collezioni farnesiane, esposto nel Palazzo del Giardino di Parma nella Stanza cosiddetta di Flora – come si legge nell’Inventario redatto intorno al 1680 e pubblicato nel secolo scorso da Campori (1870) – che in una nota ci informa dell’esistenza di un’altra opera eseguita dallo Spiciotti per i duchi di Parma, un ritratto della duchessa d’Urbino Vittoria Farnese. A Campori spetta anche il ritrovamento di una lettera scritta dal pittore parmigiano e inviata da Reggio Emilia al conte di Novellara affinché gli mandasse un servitore e una cavalcatura per trasportare alcune tavole dipinte per il conte. Di queste opere, andate perdute, non si conosce altro; ugualmente perdute sono le pitture che Spiciotti aveva eseguito sul camino della camera dove “stanza il Sig. Governatore”, per le quali fu pagato dal tesoriere del Comune di Parma in data 19 giugno 1567 il compenso di dodici lire imperiali, secondo quanto riportato da Scarabelli Zunti.

Il quadro con la Madonna e i santi Francesco e Macario rimase sull’altare della chiesa di san Francesco fino all’epoca napoleonica, quando la chiesa e il convento furono trasformati in “casa di forze” e la cappella della Concezione venne staccata dal resto del complesso e trasformata in un oratorio indipendente. Nel corso di questi cambiamenti il dipinto fu tolto dalla collocazione originaria e posto in sagrestia.

Dagli atti dell’Accademia di Belle Arti di Parma risulta che nell’autunno del 1843 l’opera parrocchiale della Santissima Trinità, divenuta proprietaria della tavola, ne proponesse l’acquisto all’Accademia; il corpo accademico pur ritenendola di scarso valore artistico ma di un certo interesse quale documento della Scuola parmigiana del ’500, accettò di acquistarla per la cifra di duecentocinquanta lire nuove, una somma che dovette sembrare troppo bassa alla chiesa della Trinità, poiché non se ne fece più nulla.

Nel 1911 don Guercino del Pio, parroco della Trinità, cercò nuovamente di vendere il quadro, accettando questa volta la cifra assai ridotta di lire duecento offerta dal soprintendente della Galleria Laudadeo Testi, anche in considerazione del cattivo stato di conservazione del dipinto, bisognoso di restauro. Alla fine di quello stesso anno l’opera, “unico documento di un artista abbastanza notevole per invenzione e colore” – secondo lo stesso soprintendente – fece il suo ingresso in Galleria. In un articolo di Sorrentino del 1932 abbiamo notizia di un restauro con il quale il quadro, annerito per la presenza di vecchie vernici e per le bruciature provocate dal fumo delle candele, fu interamente pulito, provvedendo inoltre al ripristino di alcune lacune della pellicola pittorica.

Bibliografia
Oddi XVII secolo;
Descrizione… 1725b;
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Sorrentino 1932, p. 31;
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Quintavalle A.O. 1939, p. 274;
Galetti – Camesasca 1950-51, p. 2351;
Bénézit 1955, p. 53;
Ghidiglia Quintavalle 1960, p. 25;
Dizionario… 1975, pp. 397-398
Restauri
1931-32;
1955-56
Scheda di Carla Campanini, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.