Fra angeli e i santi Domenico, Giovanni Battista, Pietro martire (a sinistra, genuflesso), Paolo, Lorenzo, Tommaso d’Aquino (a destra, genuflesso), e una monaca in preghiera.

L’imponente trittico raffigura la Madonna seduta su un ricco trono gotico a edicola con in grembo il Bambino che stringe nella mano sinistra un uccellino. La sontuosa veste della Vergine, a motivi vegetali stilizzati con grifi affrontati, richiama i preziosi tessuti lucchesi in voga fra ’300 e ’400. Intorno al trono si dispongono gli angeli, due dei quali si affacciano dall’arco sul lato dell’edicola a sinistra di chi guarda, a suggerire la profondità dell’architettura. Le altre figure sono poste ai lati in una scena unica, non divisa in corrispondenza dei tre scomparti: l’originalità di tale composizione è stata recentemente sottolineata dal van Os (1990). Sulla sinistra si vedono i Santi Domenico, Giovanni Battista e Pietro martire genuflesso, mentre a destra sono i Santi Paolo e Lorenzo in piedi, Tommaso d’Aquino in ginocchio. In basso a sinistra compare, più piccola, una monaca in preghiera, forse la donatrice del dipinto.

La presenza di santi domenicani conferma la provenienza dell’opera dalla chiesa fiorentina di Santa Maria Novella, secondo l’iscrizione apposta a tergo del dipinto, riportata dal Ricci (1896): “Questa tavola apparteneva alla soppressa Compagnia di S. Maria Novella in Firenze e fu acquistata dal Marchese Alfonso Tacoli Canacci nel 1786”. Nello stesso anno 1786 il Tacoli Canacci donò l’opera, insieme ad altri dipinti di “primitivi” toscani, al duca Ferdinando di Borbone, auspicando la costituzione di una galleria destinata a ospitare pitture toscane preraffaellite che il marchese si offriva opportunamente di raccogliere. La Talignani (1986) pubblicava la notizia che tuttavia, dopo pochi mesi dall’invio delle opere al duca di Borbone, queste giacevano ancora imballate nell’Ufficio del Guardamobile di Colorno e fra esse vi era “una tavola antica” la cui descrizione corrisponde al dipinto in esame. Stando a una memoria scritta su un cartellino incollato sul retro, riportata dal Ricci, il polittico passò poi a un certo Filippo Lucchini, il quale nel 1824 lo donò alla chiesa parrocchiale di Pannocchia; quindi nel 1865 fu acquistato dall’Accademia di Belle Arti di Parma.

Assegnata nei vecchi cataloghi del museo (Martini 1875; Pigorini 1887) ad Andrea Orcagna, l’opera fu considerata di scuola senese dal Ricci, che ne sottolineava la grande accuratezza e ricchezza. Il van Marle la riferì prima (1924) a un lontano seguace di Niccolò di Pietro Gerini, poi (1928a), pur dubbiosamente, a Paolo di Giovanni Fei. Citata come di Agnolo Gaddi dal Sorrentino (1931), fu ritenuta della bottega di questo artista dal Berenson (1932, 1936).

Il Salvini (1935) attribuì la pala al cosiddetto “Compagno di Agnolo”, nome sotto il quale già il Sirén (1905, pp. 41 sgg.) aveva raggruppato alcune opere, fra le quali un trittico nella collegiata di Empoli e gli affreschi della cappella Castellani in Santa Croce a Firenze: con questa etichetta il Salvini cercava di spiegare il carattere seneseggiante del dipinto di Parma, visibile nelle figure “esili e delicate” e nel “senso di preziosità che pervade il quadro”, e rifiutava l’autenticità della data 1375 che compare scritta sul gradino del trono, considerandola ridipinta in quanto “in aperto contrasto con i caratteri stilistici della tavola, che è evidentemente opera degli ultimi anni del secolo”. Il Gronau (1937), pur accettando la datazione proposta dal Salvini all’ultimo quarto del ’300, riferì l’opera alla bottega di Agnolo Gaddi, evidenziandone la derivazione dalla pala Strozzi dell’Orcagna, anch’essa in Santa Maria Novella a Firenze. L’opinione del Gronau fu ripresa dal Quintavalle (1937, 1939a), che etichettò il polittico come “maestro affine ad Agnolo Gaddi”; lo studioso (1939a) avvertì che la data 1375 “non appare però infirmabile”: escluse perciò l’attribuzione al “Compagno d’Agnolo”, “col quale non ha che generiche affinità di scuola”. La Marcucci (1955) riferì il parere del Longhi, che identificava il “Compagno d’Agnolo” con lo stesso Agnolo Gaddi e assegnava la Madonna e santi di Parma a questo pittore nella fase giovanile, in cui combina “vaghe reminescenze da Maso di Banco e qualche elemento genericamente daddesco” e si rivela incline a “sviluppare certi accenni gotici di tradizione senese”. Benché il Berenson (1963) non fosse convinto dell’autografia dell’opera e ritenesse il gruppo della Madonna col Bambino eseguito dal maestro e i Santi dalla bottega, la restituzione del trittico ad Agnolo Gaddi è stata accettata dalla critica successiva, a partire dal Boskovits (1968, 1975), mentre il Cole (1977) assegnava il dipinto a un seguace dell’artista. Anche la data 1375 è ormai generalmente considerata originale, per la riconosciuta inutilità di una simile contraffazione e soprattutto in seguito alla rimozione delle ridipinture effettuata nell’ultimo restauro (Fornari Schianchi 1983). L’opera risulta ancora legata agli schemi orcagneschi nell’impostazione solida e monumentale, con le figure che campeggiano in primo piano, simmetricamente disposte in atteggiamento solenne. L’abbondanza di decorazioni, nelle aureole, nella luminosa veste della Madonna bulinata d’oro su un fondo bianco-latte, insieme all’armonioso schema cromatico, giocato su dolci impasti, toni pastello e colori cangianti, conferisce al dipinto un effetto prezioso che prelude allo sperimentalismo in senso tardogotico di cui Agnolo si farà in seguito promotore. Il tenue modellato dei volti denuncia –  secondo il Boskovits (1968) – il periodo formativo dell’artista, compiuto nell’orbita del padre Taddeo ma aggiornato anche su esperienze diverse dall’ambito fiorentino: durante il suo soggiorno a Roma, documentato nel 1369, il pittore aveva certamente risentito infatti degli esempi di Giottino e di Giovanni da Milano. Si tratta dunque di una delle prime opere di Agnolo Gaddi, probabilmente di poco successiva alla Madonna col Bambino fra i santi Pietro e Agostino affrescata in una lunetta del chiostro dell’Ammannati nel convento di Santo Spirito a Firenze, recentemente pubblicata dal Tartuferi (1996) e riferibile, proprio sulla base delle stringenti affinità con il trittico parmense, alla prima metà degli anni settanta, al rientro dunque dell’artista da Roma. Ancora nella prima attività del maestro, intorno al 1380, si può inserire la pala costituita dall’Incoronazione della Vergine della National Gallery di Londra e dai quattro Santi del Museo di San Matteo di Pisa, che presenta una stretta somiglianza, nei caratteri dei volti e nello schema coloristico, con l’opera di Parma, di poco precedente (Boskovits 1968).

Scheda di Monica Folchi tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale