- Titolo: Madonna col Bambino fra le nubi e i santi Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka
- Autore: Giuseppe Maria Crespi
- Data: 1730 - 1740 ca.
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 352 x 259
- Provenienza: Parma, chiesa di San Rocco; a Parigi nel 1796; in Galleria nel 1816
- Inventario: Inv. 150
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Deposito
Ricordato con enfasi dalle guide locali nella chiesa gesuita di San Rocco, venne scelto dagli ufficiali del governo napoleonico tra i dipinti da portare in Francia e fu tra i quadri restituiti a Parma in seguito al Congresso di Vienna.
L’invenzione che dà vita all’enorme dipinto è efficacemente restituita da Zanotti (1739), a detta del quale il pittore “egregiamente rappresentò la Vergine madre, tenente in braccia il figliuolo, che mostra di chiederle a quale de’ due santi debba andare in braccio, da che gli stanno davanti, in atto supplichevole espressi, san Luigi Gonzaga, e san Stanislao, che di averlo mostrano ardente desiderio; e vi sono molti Angeli, che festeggiano”.
Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka vennero simultaneamente elevati agli onori degli altari nel dicembre 1726 e furono numerose le pale commissionate dai gesuiti per festeggiare l’atteso avvenimento: al solo Spagnolo toccò di eseguirne tre, per tre città diverse: un’enfasi miracolistica molto simile a quella esibita dal presente dipinto connota la pala eseguita nel 1727 per la chiesa del Gesù di Ferrara, dove Zanotti (1739, II, p. 57) aveva parole di lode per il san Stanislao “svenuto per soverchia spirituale dolcezza”, mentre il dipinto raffigurante i due santi ai lati di sant’Ignazio, eseguito per San Bartolomeo a Modena, si avvale di uno schema compositivo più rarefatto e meno barocco (per entrambi si veda Merriman 1980, nn. 126, 129). Mentre per il presente dipinto, ancorato al termine post quem del 1726, è senz’altro da respingere la datazione “intorno al 1708, al tempo cioè dei Sette sacramenti di Dresda”, proposta dal Quintavalle (1939), la critica ha preso di volta in volta in considerazione una cronologia inoltrata verso la fine del quarto decennio (Roli 1977) e la fine del precedente (Merriman 1980), che appare al momento, in assenza di ulteriori riscontri documentari, la preferibile.
La qualità del risultato qui raggiunto dal pittore è stato rilevato dalla Merriman (1980, p. 179), secondo la quale si tratta del più convincente fra i tre dipinti dedicati ai due santi gesuiti, per “l’abilità di amalgamare elementi destinati ad evocare una sensazione di dolce e delicato piacere estetico, la cui eleganza può paragonarsi solo alle opere di Donato Creti, l’unico altro artista bolognese capace in quegli anni di tanta raffinatezza”. Nella generale sufficienza con cui il nostro secolo ha guardato al Crespi “sacro”, che non sia quello dei Sacramenti, capace di tramutare l’episodio in epica popolare, un tale apprezzamento costituisce un episodio di rilievo. La riscoperta della produzione “di genere” del pittore bolognese ha infatti finito per mettere in secondo piano i risultati da lui raggiunti nel campo della pittura “ufficiale”, sul quale si era guadagnato l’ammirazione dei contemporanei.
Accedendo a una soluzione di “teatro sacro” già fatta propria dal tardo Ludovico Carracci, il Crespi si dimostra qui in grado di calare negli schemi propri della grande pala da altare controriformata la colma retorica di gesti ormai collaudati dall’uso (si veda il tripudio degli angeli, forte di memorie correggesche) ma anche talune osservazioni di intimo realismo, come i “primi passi di Gesù retto per le dande dalla Vergine” (Quintavalle 1939) o le espressioni di rapita emozione dei due nuovi santi, ammessi finalmente alla contemplazione diretta dell’oggetto del loro amore.