Il Bellori, considerato uno dei più grandi storiografi del ’600, nelle sue Vite, la cui editio princeps vede la luce nel 1672, solo venticinque anni dopo la morte del Lanfranco, con cui aveva avuto contatti diretti (“come noi abbiamo udito dall’istesso Giovanni…”) ricorda questo dipinto, eseguito per il Battistero, allorché, dopo la morte di Annibale, l’artista lascia Roma “per rivedere la sua patria” nel 1610, lodando il risultato “del suo facile ed eccellente pennello”.

Memoria che viene puntualmente tramandata dalle guide e dalle cronache locali a partire dal tardo ’700 e per tutto l’800 con la sua precisa collocazione in Battistero, sull’altare “tra settentrione e ponente” vicino alla porta verso la Cattedrale, racchiuso in “un’improba archittettura di legname” che copre tutta la vista del nicchione.

Si trattava di una ricca ancona intagliata di ordine ionico che racchiudeva la tela, sormontata da un frontone spezzato contornante le pregevoli figure dell’Arcangelo Gabriele e della Vergine, come ce la descrive il Lopez, che plaude al suo smontaggio avvenuto verso il 1860, liberando così la monumentale severa struttura romanica da un ornamento improprio e ingombrante.

Qui lo vide anche il Cochin che ne annota la bellezza e lo stile “alla Vouet”. L’Allodi ne sottolinea il pessimo stato di conservazione, evidenziando il particolare culto dedicato a Sant’Ottavio, soprattutto da parte del canonico Battista Francalanza (1700) che volle essere sepolto presso questo altare a cui legò un lascito di mille lire annue perché si celebrasse in perpetuo la festa del santo. Tutto interno al nostro secolo è il dibatito sulla cronologia delle opere del Lanfranco; tralasciata ormai l’indicazione belloriana, ancora condivisa da Quintavalle, che esalta le arditezze di scorci e la unità salda e coerente di luce e di schemi del dipinto, si è passati, per l’evidente disaccordo stilistico fra le opere sicure del periodo piacentino-parmense e questa intensa composizione a ipotesi più convincenti e cioè a una collocazione della tela verso gli Anni venti del ’600, pur con motivazioni diverse. Per il Salerno decisive appaiono le linee movimentate rintracciabili anche nel Calvario della cappella Sacchetti, ma soprattutto la considerazione del Rogito del notaio Franco Bartoli, riportata in una nota manoscritta, a far propendere per questa datazione.

Nell’Affò – Ravazzoni, infatti, si sottolinea che solo alla data 21 gennaio 1619 si fa concessione di erigere in Battistero “un altare dedicato a Sant’Ottavio con la sua dote”. A questa nota se ne può aggiungere un’ulteriore segnalata dal Lopez e redatta dallo stesso notaio, in data 15 gennaio 1619, con la quale viene concessa dai Fabbriccieri della Cattedrale, ai Canonici del Battistero la facoltà “d’innalzare quivi un altare a Sant’Ottavio, tra la porta occidentale e settentrionale, coll’obbligo di un annuo assegno al detto altare di Scudi 6 da lire 7”.

Anche il Bernini accetta la datazione agli Anni venti, facendo precedere l’opera da due disegni preparatori, uno in collezione privata a Malta e l’altro nella Reale Accademia di San Fernando a Madrid (n. 433) quadrettato e, seppur mancante dell’angelo, molto vicino alla versione definitiva. Da assegnare a un altro maestro parmense del XVIII secolo è invece il disegno a penna (n. 18245) della raccolta Ortalli nella Biblioteca Palatina di Parma. Anche se l’autorevole parere di Schleier disconosceva la paternità del Lanfranco nel bozzetto della Pinacoteca Stuard, crediamo sia da riconsiderare la possibilità di uno studio originale inviato da Roma a Parma, quale modello per l’approvazione dei Canonici prima di passare alla realizzazione definitiva dell’opera. Si tratta, infatti, di un approccio “sintetico” al tema, dichiarato però con estrema sicurezza pittorica e con precisa volontà chiaroscurale su tela seicentesca. La vicenda storica del bozzetto, proveniente dalla collezione del pittore Gaetano Callani, è stata ricostruita, con opinioni diverse, da Cirillo – Godi e dal Barocelli, cui si rimanda.

Il bozzetto era stato reso noto come autografo anche da Mellini (1977). Per quanto riguarda la solenne composizione stilata su una forte diagonalità del santo in armatura con il volto riverso verso la Vergine che gli invia per il tramite di un angelo in volo una corona di rose e la palma del martirio, il Lanfranco utilizza un forte controluce, eloquentemente interrotto da luminosità decise che sottolineano l’estasi del santo caduto sotto i colpi mortali del carnefice, di cui sono evidenziati la mano che sferra il colpo, la barba e il cimiero che sfuggono alla densa penombra ritagliata sullo sfondo, in linea con le molte variazioni del tema affrontate negli Anni venti, fra le quali è difficile trovare una comune e ferma riproposizione di stile, in quanto l’artista propone ad ogni opera accordi cromatici, ed effetti spaziali sempre diversi.

Qui isola il sant’Ottavio, rendendolo unico protagonista, dagli altri due martiri, coi quali viene di solito abbinato, secondo il Martirologio Geronimiano, Avventore e Salutore, protettori di Torino appartenenti alla Legione Tebea che, durante il massacro di Agaune, riuscirono a fuggire e, inseguiti, vennero trucidati. Questa tipologia interpretativa, sicuramente suggerita dalla committenza, fa pensare possa esistere un collegamento sia nella scelta della dedicazione, rara e insolita, dell’altare che nella conseguente realizzazione dell’opera con uno sfortunato personaggio di Casa Farnese, Ottavio figlio naturale di Ranuccio I e Briseide Ceretoli, che riprendeva il nome del celebre avo, secondo duca di Parma e Piacenza, ma non la gloria. Ottavio, nato nel 1598 e legittimato nel 1605, ricevette a Corte la severa educazione riservata a un principe futuro erede del ducato e fu allevato con tutti i privilegi dovuti al suo rango, come ce lo presenta quattordicenne Gervasio Gatti nell’elegante ritratto, databile al 1612-13 nel Palazzo Comunale di Parma (cfr. Giusto 1995, p. 85), ma nel 1620 si ribellò alla scelta paterna per cui viene segregato nel duro carcere della Rocchetta in Pilotta fino alla morte avvenuta nel 1643.

La passio del martire e quella del giovane principe sembrano trovare affinità nella sfida al potere, nella fuga, nella morte e – come osserva la Giusto – nell’emblema della Croce cesellata sull’armatura del santo e del principe, tanto da rendere il quadro del Lanfranco una duplice solenne interpretazione di un martirio religioso e laico, anche se non manifesta. L’ipotesi potrebbe così delineare un possibile contrasto fra la Chiesa, che onora il principe sfortunato, e Ranuccio I artefice della sua carcerazione, ma anche una silente, segreta condivisione del padre nella dedicazione dell’altare e del dipinto.

Bibliografia
Bellori (1672), ed. cons. 1976, pp. 378-379;
Ruta 1780, p. 31;
Affò 1796, p. 106;
Affò – Ravazzoni fine del XVIII secolo;
Donati 1824, p. 40;
Bertoluzzi  1830, p. 39;
Allodi 1856, 1981, pp. 337, 342;
Lopez 1864, p. 119 e n. 69, p. 147;
Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti…, ad vocem;
Copertini 1925;
Cavaliere 1931, p. 219;
Quintavalle A.O. 1948b, p. 85;
Salerno 1958, p. 56;
Schleier 1980, p. 37, n. 36;
Bernini 19852, p. 55;
Cirillo – Godi 1987, p. 107;
Barocelli 1996, p. 84
Restauri
1948
Mostre
Parma 1948
Scheda di Lucia Fornari Schianchi, tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Seicento, Franco Maria Ricci, Milano, 1999.