Le grandi imprese pittoriche che fra il 1519 e il 1524 si compirono nel monastero di San Paolo e nella chiesa abbaziale di San Giovanni e che videro protagonisti Correggio, Parmigianino e Michelangelo Anselmi proiettarono la cultura artistica parmense – fino ad allora ancorata a un’esausta e provinciale tradizione di stampo quattrocentesco – nel cuore della “maniera moderna”.

Già Longhi (1958, in Longhi 1976, p. 66) evidenziò come non secondaria la spinta impressa da Anselmi in questa direzione: fu con lui, infatti, che si insinuarono a Parma, in tempi precoci (ricordiamo che il pittore giunse in città forse da Siena nel 1516 o poco oltre), le innovative riflessioni e gli originali apporti linguistici del manierismo toscano e, più in generale, della cultura dell’Italia centrale sui quali si innestarono, nel giro di pochissimi anni, le rivoluzionarie ricerche di Correggio e Parmigianino.

Nonostante i fondamentali studi della Ghidiglia Quintavalle (1960b) ancor oggi non è possibile ordinare con certezza il catalogo e la cronologia delle opere di Anselmi, né dire alcunché di definitivo circa la sua formazione o i suoi esordi senesi (da tempo infatti non gli viene più riconosciuta la paternità dell’affresco con la Visitazione a Fontegiusta di Siena e della Madonna col Bambino e san Giovannino della Pinacoteca di Siena; cfr. Torriti 1978, p. 120). È molto probabile che la sua prima educazione artistica sia avvenuta alla scuola di Sodoma, ma fondamentali nella determinazione del suo stile dovettero essere anche i contatti con Beccafumi e Peruzzi.

Nella chiesa di San Giovanni a Parma eseguì le sue prime opere sicuramente documentate: nel 1520 circa decorò le crociere e gli archi della navata centrale; fra il 1521 e il 1522 attese agli affreschi dei catini delle absidi del transetto nei quali utilizzò una tavolozza calda, ricca di cangianti tonalità, e forme piane, animate da movimenti sinuosi di evidentissima matrice senese. Il lavoro nella chiesa benedettina proseguì negli anni immediatamente successivi con la pala con il Cristo portacroce per la cappella Bergonzi e degli affreschi dei sottarchi di alcune cappelle laterali (sulla complessa questione dell’attribuzione di questi dipinti si vedano Ghidiglia Quintavalle 1960b, pp. 27-35, Fornari Schianchi 1979b, p. 101 e Battisti 1979, pp. 128-145). È in queste opere che comincia a manifestarsi nello stile di Anselmi l’influsso delle novità linguistiche di Correggio e Parmigianino, anch’essi attivi negli stessi anni nel cantiere di San Giovanni. Alla seconda metà degli Anni venti va riferito – a giudizio della Ghidiglia Quintavalle (1960b, pp. 37-46) – un gran numero di piccoli dipinti di destinazione privata, le scomparse decorazioni a fresco delle chiese di San Pietro martire e di Santo Stefano e alcune importanti pale d’altare (documentate al 1526-27 sono la Madonna in gloria fra i santi Rocco, Sebastiano, Ilario e Biagio e l’Apparizione di sant’Agnese ancora oggi in Cattedrale) fra le quali spicca quella ora in esame.

Compiuta per il primo altare a destra del transetto della Cattedrale, la grande tavola venne trasportata a Parigi nel 1803 e restituita alla Galleria nel 1816. Con l’eccezione di alcuni antichi storici (cfr. Ghidiglia Quintavalle 1960b, p. 111), di Affò (1796) e di de Lama (1816) che la attribuiscono senza una precisa motivazione al debole Raffaele Motta da Reggio, la critica l’ha generalmente indicata come una delle opere più significative di Anselmi: Ricci (1896) loda come inestimabili “la nitidezza del disegno, la gaia luce del colore e il sentimento delle figure”; Venturi (1926) e Quintavalle (1939), pur con diversi accenti, rilevano la innovativa compresenza nell’impianto compositivo e nella costruzione delle figure di echi senesi e di forti influssi correggeschi; la Ghidiglia Quintavalle (1960b) indica precisi punti di contatto con opere di Sodoma e Beccafumi eseguite attorno al 1524-1526 e propone una datazione al 1527 circa; la Fornari Schianchi (s.d. [ma 1983]) oltre ai motivi senesi e correggeschi intravvede anche, nella dinamica luce-colore e nella prorompente plasticità delle figure, elementi veneti e analogie con le ricerche di Gerolamo Genga; Freedberg (1988) vede nella particolare elaborazione ritmica della composizione un’ispirazione parmigianinesca e indica una cronologia non anteriore al 1530; Riccomini (1988), infine, coglie nella resa delle figure dolcezze di tono e squisitezze grafiche riconducibili alla personale, originale ricerca da parte di Anselmi di una sorta di equidistanza fra le diverse istanze linguistiche e ideali di Correggio e Parmigianino.

Il dipinto mostra dunque come nel corso degli Anni venti l’originaria “maniera” di Anselmi si sia arricchita di diversi, fondamentali apporti che il pittore ha saputo sintetizzare in un personale, raffinato linguaggio nel quale si fondono, senza dissonanza, naturalezza espressiva ed eleganze decorative, rigore compositivo e libertà ritmica, astrazioni formali e naturale dinamismo. La particolare cifra stilistica del pittore senese non è quindi il frutto di un’eclettica imitazione ed elaborazione di “maniere” diverse, bensì il risultato di un’approfondita interpretazione e mediazione delle diverse istanze ideali che animavano da un lato il classicismo naturale di Correggio e della tradizione lombardo-veneta, dall’altro il cosiddetto anticlassicismo intellettuale di Parmigianino e dei manieristi toscani.

Nulla di certo è possibile dire sulle circostanze della committenza o sulla precisa datazione dell’opera in esame; ci pare tuttavia importante ricordare che nel 1528 Parma fu investita da una devastante epidemia di peste che fece un gran numero di vittime e provocò una gravissima carestia. Si può dunque suggestivamente ipotizzare che la pala sia stata eseguita durante quel difficile anno per invocare l’intervento liberatorio della Vergine e, soprattutto, dei santi Rocco e Sebastiano, tradizionalmente venerati quali protettori dal terribile male.

Scheda di Patrizia Sivieri tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.