La tela, unica opera nota eseguita da Mazzola su questo supporto, giunse all’Accademia di Belle Arti il 17 settembre 1828 dalla sagrestia della soppressa chiesa della Certosa presso Parma; priva di segnatura e documentazione, venne ritenuta lavoro di Cristoforo Caselli e come tale considerata anche da Martini, Pigorini, Crowe-Cavalcaselle e Sorrentino.

L’attribuzione al Mazzola si deve a Venturi, seguito dal Testi che ipotizza anche la collaborazione dei fratelli Michele e Pier Ilario (soprattutto per le parti decorative), dal Berenson e infine dal Quintavalle, secondo il quale il dipinto ripropone con maggiore finezza e sobrietà tonale l’impianto della tavola del 1491. Il motivo della Madonna in trono fra due santi è lo stesso, ma articolato in una composizione prospetticamente più complessa, meglio equilibrata nelle proporzioni come nelle contrapposizioni gestuali, più elegante nelle forme nonché nel sobrio tonalismo. La scelta del formato verticale implica l’utilizzo di un trono elevato su due alti gradini, il primo a rivestimento marmoreo, il secondo a tarsia lignea; esso è collocato al centro di un “casamento” con soffitto a cassettoni e arco classico sul fondo, parzialmente chiuso in basso da un parapetto di marmo mischio che è formula ricorrente nelle opere del Mazzola, dalle tavole di Cortemaggiore e Cremona, a quelle attribuitegli da Zeri (1976, pp. 62-63), alla Madonna fra sante di Capodimonte; la resa prospettica è corretta e la posizione lievemente ortogonale dei due santi, posti ai lati del trono ma anche lievemente avanzati, accresce il senso di profondità. Le figure risultano ben dimensionate, piuttosto slanciate ed eleganti nelle forme (in particolare nelle mani), sciolte nella posizione e variate negli atteggiamenti, da quello malinconicamente presago della Madonna, alla concentrata meditazione di San Gerolamo, infine a quello più coinvolgente del Battista, che indicando il Bambino rivolge il suo sguardo fuori dal dipinto. Pure l’uso di tinte fredde e smorzate, la resa luministica delicata che non segna profondamente le ombre, i contorni ammorbiditi contribuiscono a conferire un tono pacato e armonico alla composizione, che parrebbe quindi porsi nella fase più matura della produzione mazzolesca, “segnata da una più intensa qualità” – come afferma Zeri (1976, p. 64) – legata anche a un rinnovato contatto con la pittura veneta, questa volta nell’ambito di Alvise Vivarini, cui potrebbe rimandare anche la qualità sempre un poco franta e tagliente dei panneggi, in particolare quello del manto della Vergine, e la stessa morfologia fisionomica di quest’ultima.

Assai interessante è la decorazione a finta tarsia del gradino, col motivo centrale della losanga a toppi composti di estrazione lendinaresca, decorazione utilizzata dal Mazzola anche nel trono della Madonna fra sante a Capodimonte, sintomo di una sua particolare sensibilità per l’arte dei magistri de lignamine: non va dimenticato che mentre eseguiva il suo dipinto per il Battistero, erano attivi per lo stesso edificio Luchino Bianchino, in questo caso più come intagliatore, e soprattutto Bernardino da Lendinara, che lavorava ai due tronetti per i membri della collegiata di San Giovanni Battista ora in Galleria  (le cui figure degli stalli centrali sono forse non casualmente campite su di un fondo a finto marmo) (vedi scheda n. 100); in San Francesco del Prato dovette poi entrare in contatto col cremonese Tommaso Sacchi, esecutore del perduto coro della chiesa, che nella città natale partecipò alla realizzazione dell’apparato ligneo per il polittico mazzolesco in San Domenico (Mischiati 1991, pp. 110-113). La tela conserva la sua originaria cornice lignea a cassetta, abbastanza inconsueta per un dipinto a destinazione ecclesiastica e forse ispirata alle incorniciature degli stendardi processionali; nella fascia centrale è dipinta in toni ocra su fondo grigio azzurro una decorazione a candelabra vegetale, il cui andamento sciolto e ben chiaroscurato confermerebbe una cronologia oltre la soglia del secolo.

Un analogo partito ornamentale segna i pilastri sullo sfondo della Madonna di Capodimonte, e ricorre anche nell’ancona eseguita dai fratelli per la parrocchiale di Scurano, verosimilmente ponendosi in relazione con gli esiti della contemporanea decorazione marmorea, sia locale che veneta o lombarda.

Scheda di Stefania Colla tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.