Come attesta una scritta presente sul retro, la tavola venne acquistata a Firenze nel 1787 dal marchese Alfonso Tacoli Canacci e da qui, nel 1788, spedita al duca di Parma Ferdinando di Borbone come opera di Lorenzo di Bicci. Una corretta ascrizione a Bicci di Lorenzo compare per la prima volta nel Catalogo del 1825 mentre nei successivi del 1875 e 1877 l’opera è citata con una generica attribuzione a “scuola toscana antica”.

Il riferimento a Bicci di Lorenzo venne in seguito ripreso da Corrado Ricci (1896) che informava circa la provenienza e i successivi spostamenti del dipinto una volta trasferito a Parma: passò prima a Colorno nella sagrestia di San Liborio e da qui in Palazzo Ducale, giungendo in Galleria nel 1821 (Quintavalle 1939a). La tavola costituiva lo scomparto centrale del trittico posto sull’altare maggiore della chiesa di San Niccolò in Cafaggio e recava, nei pannelli laterali, le effigi dei santi Giovanni Battista, Matteo, Niccolò e Benedetto (Richa 1758): dopo un iniziale tentativo di ricostruzione operato dal Salmi (in Fiocco 1929a), Zeri (1958) ha indicato gli originali laterali del dipinto parmense in due pannelli raffiguranti i Santi Benedetto e Nicola di Bari (Grottaferrata, Museo dell’abbazia), Giovanni Battista e Matteo (New York, collezione Lehman), riconoscendo in essi lo stesso motivo ornamentale presente sul pavimento della tavola centrale. La chiara derivazione iconografica del dipinto di Parma dallo scomparto centrale del polittico Quaratesi di Gentile da Fabriano lasciava supporre anche per quello di San Niccolò in Cafaggio la presenza di una predella in cui fossero illustrati i miracoli del santo titolare della chiesa: di essa, infatti, facevano parte gli scomparti con San Nicola che provvede alle doti delle fanciulle povere e San Nicola che resuscita tre giovani del Metropolitan Museum di New York (Berenson 1915), San Nicola che placa la tempesta dell’Ashmolean Museum di Oxford (van Marle 1927), la tavoletta con i Pellegrini presso la tomba di san Nicola nel Museo del Castello di Wawel a Cracovia (Michalska 1959; Zeri-Gardner 1979) e la Nascita di san Nicola, presente alcuni anni fa sul mercato antiquario francese (ibidem). I pannelli di Oxford e Cracovia erano ancora di proprietà Tacoli Canacci nel 1790-1792 quando li troviamo citati, rispettivamente attribuiti a Giotto e Lorenzo di Bicci, ai nn. 34 e 323 del Catalogo ragionato compilato in quegli anni dal gentiluomo parmense.

Documenti di archivio (Cohn 1959), attestano per il polittico la collaborazione di Francesco d’Antonio al cui intervento sono da riferire i Santi Antonio abate e Nicola di Bari (Grottaferrata, abbazia) e il pannello di predella con San Nicola che resuscita tre giovani (Oxford): la fattura rozza e legnosa dei volti e l’impostazione rigida delle figure differisce in modo sensibile dalla fluidità di segno, prettamente tardogotica, manifesta nella tavola della Pinacoteca di Parma e nelle rimanenti parti di predella dove, presente Bicci, si legge un chiaro accostamento allo spirito del Gotico internazionale. Formatosi nella bottega del padre sulla pittura di Agnolo Gaddi e dei tardi seguaci di Giotto, solo a partire dal terzo decennio del ’400 Bicci di Lorenzo mostra di aderire alla cultura tardogotica nelle varianti offerte da Lorenzo Monaco, Arcangelo di Cola e Gentile da Fabriano: la ricchezza degli elementi decorativi, il complicato svolgersi del panneggio, l’appuntarsi del velo sulla spalla sinistra della Vergine o il tenersi del Bimbo al manto della Madre, costituiscono esplicite citazioni di analoghi motivi adottati dal pittore marchigiano nello scomparto centrale del polittico Quaratesi (Londra, National Gallery) eseguito per la chiesa fiorentina di San Niccolò Oltrarno nel 1425; nel pannello di Parma, tuttavia, Bicci porta avanti una pittura che solo in parte riesce ad andare oltre la semplice adesione al dato iconografico e stilistico, dichiarando la propria sostanziale estraneità alla resa del dato naturale e di costume peculiare dell’opera di Gentile: benché la dolcezza dei tratti, il profilo allungato della figura e l’articolarsi delle membra in leggero contrapposto indichino nella Vergine un intimo accostamento ai motivi formali tardogotici, il disegno sostanzialmente rigido e convenzionale delle forme e l’espressione stereotipa dei volti degli angeli – decisamente grevi se paragonati alla grazia delicata delle eleganti gerarchie gentiliane – rimandano a una cultura che a questa data (1433) indica la tenace persistenza di un formulario stilistico ancora tardotrecentesco. Maggiore vivacità e scioltezza di modi si ritrovano invece negli scomparti della predella dove, sia per il formato ridotto che per i contenuti narrativi delle singole scene, il pittore traspone i modelli di Gentile in composizioni dotate di una notevole freschezza e grazia poetica, avvalendosi dell’ausilio di quella pennellata ricca e veloce, particolarmente attenta ai trascoloranti effetti di luce, che torna puntuale nello scomparto parmense.

Il particolare accostamento a certi formulari compositivi delle coeve realizzazioni architettoniche, manifesto nei lavori eseguiti intorno al quarto decennio del secolo, potrebbe spiegarsi in relazione a quella attività di architetto attestataci per Bicci di Lorenzo dalle Vite del Vasari: la struttura del trono, inquadrato da lesene sormontate da capitelli corinzi e coronato da un timpano triangolare con al centro un tondo con testina, denuncia in effetti l’approssimarsi del pittore alla nuova sintassi rinascimentale; l’assenza di ogni connotazione prospettico-strutturale, tuttavia, riconduce i singoli elementi a una funzione puramente decorativa.

Potrebbero appartenere al medesimo complesso due tavolette frammentarie rappresentanti un San Gerolamo (La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia) e un Sant’Agostino scriventi (Roma, Barsanti): date le precise rispondenze con il polittico Quaratesi di Gentile viene infatti da chiedersi se anche i pannelli laterali e la tavola centrale del polittico di San Niccolò in Cafaggio fossero sormontati, come quest’ultimo, da un secondo registro di pitture con personaggi a mezza figura (nel presente caso le effigi a mezzo busto dei quattro Dottori della Chiesa e, forse, un Cristo benedicente per lo scomparto centrale). Nei due frammenti ricorrono infatti lo stesso ornato in pastiglia dorata e quelle specchiature a finto marmo, di chiara fattura settecentesca, che compaiono negli scomparti di Grottaferrata, in quelli della collezione Lehman di New York e, prima del restauro, nella stessa Madonna di Parma, la cui presenza è del resto tuttora riscontrabile in molti pezzi già Tacoli Canacci.

Scheda di Maria Merlini tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.