- Titolo: Madonna col Bambino fra i santi Michele arcangelo e Andrea apostolo
- Autore: Cima da Conegliano
- Data: 1505-1507
- Tecnica: Olio su tavola
- Dimensioni: 194 x 134
- Provenienza: Parma, antica chiesa dell’Annunciata (fuori le mura, demolita nel 1546); chiesa dei Francescani; collezione Sanvitale; in Galleria nel 1834
- Inventario: GN361
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: La pittura veneta 1200-1500
Il tortuoso percorso logistico di questa splendida pala visualizza metaforicamente l’altrettanto tortuoso percorso attributivo delineatosi, tuttavia, sotto il segno di una sempre costante fortuna critica.
Già, poiché i nomi che per essa vengono via via spesi sono sempre e comunque nomi eccelsi nel panorama artistico degli ultimi decenni del ’400: ricordata per la prima volta nel 1580 da padre Malezappi (Humfrey 1983) con un’attribuzione a Francesco Francia; dai frati dell’Annunciata assegnata a Dürer (Ricci 1896), collocata nella Quadreria Sanvitale al posto d’onore come opera di Leonardo grazie a un’iscrizione apocrifa (“Leonardo Vinci fece 1492”) che sul cartiglio in basso andò probabilmente a coprire, o sostituire, la firma originale forse diventata illeggibile. Non sono mai nomi avanzati a caso, però, anzi indicatori di “affinità elettive” e comunque singolarmente appropriati a qualificare almeno l’area stilistica, e dunque i maestri, fra i quali si muove l’autore. L’opera viene poi riconosciuta al Cima già nei cataloghi Martini (1875) e Pigorini (1887), ed entra così stabilmente nel corpus delle opere del grande maestro veneto.
Prima tavola del Cima ad arrivare a Parma (anticipatamente, cioè intorno al 1498-1500, rispetto alla datazione tradizionalmente accettata al 1505-1507, se si considera l’attenta e attendibile ricognizione documentaria e stilistica proposta da Humfrey 1982, a supporto dell’anticipazione), pone ovviamente alcuni problemi di committenza, pur nel quadro riconosciuto di una cultura pittorica come quella parmense che tendeva a gravitare sull’area veneta, anche per marcare, perlomeno in senso culturale, una volontà autonomistica rispetto al protettorato del ducato lombardo. Anche queste aspirazioni, insieme al riconoscimento dell’ovvio prestigio della produzione figurativa veneziana, potevano spingere tanti artisti parmensi (Araldi, Caselli, i Mazzola) verso quei lidi. Ma poiché non basta pensare ai rapporti fra gli artisti per spiegare, in una società stratificata e complessa quale era quella quattrocentesca, l’arrivo di un’opera così importante di Cima in quel di Parma, bisognerà cercare in altre e complementari direzioni.
Come ha fatto ancora Humfrey (1982 e 1983) proponendo alcune suggestive ipotesi: un ruolo di contatto potrebbe aver svolto il nobiluomo parmense Bernardo de’ Rossi, vescovo di Treviso dal 1499 e dunque certamente a conoscenza della personalità di un pittore già allora di gran fama, e produttore con la sua bottega di una quantità di opere che da Venezia si diffondevano nel Veneto e oltre. Altro canale, forse più convincente, potrebbe essere stato quel singolare principe letterato e umanista che fu Alberto Pio da Carpi: possedeva, dagli ultimi anni del ’400, un’opera di Cima (il Compianto sul Cristo morto ora alla Galleria Estense di Modena), ed era in contatto con Parma, in stretti rapporti con gli osservanti francescani (Humfrey 1982, Schmidt Arcangeli 1996). Una committenza colta e insieme devota, legata spesso agli ordini religiosi, una specificità di tutto il percorso del lavoro di Cima che troverà conferma anche nei successivi rapporti che intreccerà con la società parmense. Se questa è l’opera dell’esordio su una nuova scena, questa dovrà, per il pittore umbratile ma consapevole, essere un testo di alto livello, aggiornato e “moderno”, in grado di raccogliere, pur nei modi fedeli alla sua cifra stilistica, le istanze e gli esempi migliori che andavano allora maturando a Venezia. Il gruppo della Sacra Conversazione, leggermente disassato e dimentico delle soverchie rigidità di un Bartolomeo Montagna, cerca una plasticità ammorbidita e ingentilita dagli esempi di Antonello e soprattutto di Giovanni Bellini. I personaggi, meno icastici e frontali, sembrano annodare strane tensioni emotive nei leggeri movimenti che li articolano nello spazio, e si aprono e si illuminano di una luce che arriva dal paesaggio, tanto veneto da potersi riconoscere nel borgo turrito di Conegliano, sorta di firma o di riconoscimento affettivo al proprio paese. Sul paesaggio lontano, con un salto di scala audace in quegli anni, si staglia la monumentale e fatiscente architettura sulla destra, raccontata si direbbe con una precisione di disegnatore e di miniaturista, con ricchezza di venature di marmi, di rotture sbocconcellate, di licheni invasivi, con un sentire più vicino a Ferrara che a Padova, più precocemente nostalgico che archeologico.