Il dipinto venne ritrovato nel 1933, durante i lavori nella Pilotta, in una scala in demolizione dietro la porta monumentale della Rocchetta e venne trasportato su tela l’anno successivo.

A.O. Quintavalle (1939a), pur considerandola opera “rozza e senza particolare significato”, ipotizzò che fosse un’immagine proveniente da un antico oratorio ducale. Nella raccolta del Sanseverini si conserva un disegno che riproduce un’immagine simile più completa di un antico affresco che era posto sull’uscio della prigione della Rocchetta (S. Pighi, Annotazioni…, in L’ossessione… 1997, pp. 906-907). In lontananza, al limitare delle colline, si intravedono alcuni pastori dai contorni molto sfumati, su cui plana l’angelo sostenente un cartiglio.
Già allora presentava gravi problemi di leggibilità dell’immagine originale, in quanto l’intera superficie era abbondantemente contraffatta da sovrapposizioni pittoriche e rifacimenti, scarsamente coesi al supporto, come ancora si può verificare.

In lontananza, al limitare delle colline, si intravedono alcuni pastori dai contorni molto sfumati, su cui plana l’angelo sostenente un cartiglio.
La grande tela ha l’aspetto di un’opera non ultimata o eseguita solo per fissare fedelmente l’iconografia dell’affresco leonardesco e poi non risolta nei passaggi chiaroscurali. Alla morte dell’artista era ancora nella sua bottega e fu donata l’8 aprile 1530 dall’erede Filippo Porzioli, marito della figlia Orsolina, alla confraternita dei Santi Cosma e Damiano, detta anche della “Disciplina Vecchia”, di cui l’Araldi era stato membro almeno dal 1507 (Scarabelli Zunti (a), II, f. 16v). Presso la confraternita rimase fino al 1841, anno in cui il rettore conte Luchino dal Verme, la vendette per la somma di lire 4000 alla Ducale Galleria (Atti dell’Accademia 1839-1846).

L’analisi tecnica di questo dipinto esclude che sia stato eseguito ad affresco e che abbia una datazione così remota. Se pur vi è traccia di segni incisi nei contorni, la povertà dei pigmenti pittorici e la fragilità dello strato a gesso sottostante i colori, suggeriscono l’utilizzo di una tecnica  simile alla tempera o comunque eseguita direttamente su una superficie diversa da un intonaco. In alcune parti in cui il colore è abraso s’intravede nettamente la base gessosa sottostante e anche nel retro lo stesso “impasto” penetra tra le fibre della tela di canapa a trama larga.

L’opera ripropone un’iconografia tipicamente rinascimentale, ma i caratteri sommari delle pennellate e la rigidezza di forme, volutamente costruite con molta ingenuità, fanno ipotizzare che possa essere una contraffazione, forse accademica, di quell’antica immagine.

Scheda di Mariangela Giusto tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.