Elemento straordinario, fra i molti, che si ripropone seduttivo ogni volta alla rinnovata visione di questa celebratissima tavola (inutile ripetere le esclamazioni ammirate degli amateurs illustri, da Mengs a Stendhal a tutti i viaggiatori stranieri che davanti ad essa sostano riportando in patria il cuore gonfio di emozione e magari anche qualche schizzo), è l’ampia tenda cremisi.

Quel drappo che nella tradizione veneta adornava il trono della Vergine, teso talvolta come un fittizio schienale, che nella Madonna del pesce di Raffaello (1512 circa, oggi a Madrid) è tirato di lato in diagonale come un sipario sollevato, che Lorenzo Lotto nella pala di San Bernardino in Pignolo a Bergamo (datata 1521) fa sollevare come un morbido baldacchino da coppie di angeli sgambettanti, Correggio lo adagia leggero tra le fronde degli alberi a costruire una sorta di riparo protettivo, un nido raccolto, una rinnovata forma di locus amoenus ritagliato sullo sfondo del luminoso paesaggio che si distende in lontananza.

Un paesaggio lombardo e leonardesco, così malinconicamente svaporante nella distanza, e pure segnato dal lavoro dell’uomo, gli edifici rustici, e dal tempio classicheggiante che lo connota come una rinata Arcadia. In questi stessi anni Tiziano mette in scena i suoi personaggi sacri trionfanti come eroi entro le coordinate di uno spazio naturale di cui sentirsi padroni, Correggio piuttosto li difende, ricava per loro uno spazio di domestica intimità, in cui i moti e gli intrecci affettivi possano dispiegarsi senza esibizione ma con la necessaria, trepida, quiete priva di turbamenti.

A questa atmosfera si adegua, anzi ne costituisce il motore, la Vergine, scendendo metaforicamente dal trono e sedendosi su un rialzo erboso, con grande nonchalance, il ginocchio piegato, il piede nudo che spunta dal lembo dell’abito, giovane signora dalle palpebre abbassate nel volto reclinato, impegnata a sostenere il Bambino, vero fulcro dei rapporti, fatti di sguardi e di gesti, che intercorrono fra i diversi protagonisti. Vis-à-vis con san Gerolamo, a lui dirige lo sguardo attento, perché il santo eremita, con l’intermediazione partecipe e legittimante dell’angelo efebico dal raffaellesco profilo che gira le pagine, gli mostra il frutto della sua meditazione: il grande libro della Vulgata, traduzione delle Sacre Scritture dall’originale ebraico, cui rimanda il rotolo che tiene nella mano sinistra (su di esso si distinguono caratteri ebraici, oggi illeggibili).

Gerolamo è dunque iconograficamente rappresentato come Dottore della Chiesa, studioso e interprete legittimo della Bibbia, e non è neppure il caso di sottolineare quanto questo problema fosse centrale in quegli anni, segnati e divisi dalle letture e dalle volgarizzazioni luterane, nonché eremita (e l’eremitaggio come stile di vita contrapposto alla dimensione ecclesiastica cortigiana è un altro tema fondamentale del periodo): la presenza del leone, simbolo ma anche compagno nel deserto, l’abbigliamento essenziale, il corpo emaciato lo qualificano come tale. Insieme a un particolare visibile solo a distanza ravvicinata (ma non c’è chi sostiene che Correggio non è pittore di dettaglio?), le lunghe trascurate unghie delle mani e soprattutto dei piedi, così diversi dalla morbidezza, luminosa e sensuale, dei piedi della Maddalena, testimonianza di un voluto disprezzo delle necessità e della cura del corpo.

Rispetto a questa diagonale che va dal Bambino a Gerolamo, e viceversa, un’altra si distende, ma in discesa e intrecciandosi con la prima, dalla Vergine alla Maddalena, il coté femminile diremmo, unite/disgiunte dal bimbo divino. Che rivolge la sua attenzione intellettuale – come detto – altrove, ma contemporaneamente con la mano sinistra accarezza teneramente i capelli di Maddalena (giovane donna bionda di profilo, dalla tipologia così elegante da trarre in errore Giorgio Vasari che nella prima edizione delle Vite la prende per santa Caterina), che si piega in adorazione, e anche la sua posizione rimanda alla tradizione iconografica dello Sposalizio mistico, avvicinando con la mano il piedino al volto. Ancora una volta Correggio rivela la straordinaria capacità di trasformare la necessità iconografica in un gesto di quotidiana, assoluta tenerezza femminile, e rompe lo schema tradizionale della Sacra Conversazione anche così: rifiutando la consueta gerarchica distanza fra i personaggi, riempiendo i vuoti fra di loro, costruendo una catena affettiva fatta di sguardi ma soprattutto di gesti, trasformando i sentimenti virtuali in concreta fisicità, insomma sono tutti vicini, si sfiorano, si toccano.

Il semicerchio perfetto di certe Madonne e santi di Cima da Conegliano o di Giovanni Bellini, o di Perugino o anche di Raffaello, diventa un complicato tortuoso variegato intrigante abbraccio che ci cattura al primo istante, ammettendoci alla felicità del mondo intimo e sereno ivi illusionisticamente rappresentato. Questa capacità non è solo “grazia”, “sensualità”, “divina armonia”, è piuttosto seduzione: modernamente Correggio mette in atto una strategia seduttiva, non argomentativa e dialettica, neppure sofisticamente chiusa nei propri simboli, ma aperta e offerta alle vie dei sensi e del cuore attraverso gli occhi di chi guarda. Una strategia che, dal punto di vista linguistico, non si adegua a un modello unico, autoreferenziale e sostanzialmente noioso, ma pratica e predilige la varietas, la docta varietas che il Castiglione nel Cortegiano (1528), più che Pietro Bembo, teorizzava (Del Bravo 1978, ed. 1985). Varietas da intendersi, dal punto di vista della lingua della pittura, come possibilità di attingere a modelli moderni (da Leonardo a Raffaello a Tiziano) o più antichi o lontani, di svariare fra registri espressivi diversi (dalla cupa drammaticità del Compianto alla estatica radiosità della Incoronata per fare solo un esempio), unificando il tutto al calore individuale di un’inventio che sa rinnovare, modificare, rimescolare grammatica sintassi e vocaboli in termini di assoluta originalità. Senza sforzo, senza fatica visibile, o artificio, ma con quella grande padronanza degli stili, quella grande abilità di mano, quella consapevolezza che produce leggerezza, naturalezza, la “sprezzatura” di cui, in termini poetici, proprio Castiglione parlava.

La straordinaria qualità di attrazione di questa tavola si concretizza anche nel suo percorso storico: venerata, sin da quando viene sistemata nella chiesa di Sant’Antonio, nel 1528, desiderata e richiesta come un prezioso tesoro: più volte infatti corre il rischio di essere venduta o sottratta fin quando prima l’intervento deciso di Francesco Farnese (1712), poi il trasferimento cautelativo presso il Capitolo del Duomo (1749), infine l’acquisto di Don Filippo la mettono sotto le ali protettive delle istituzioni. Ma verrà poi sottratta dal potere napoleonico, e una curiosa stampa francese (Meynier 1796 in Wescher 1988, tv. 2) ne testimonia l’arrivo al Louvre: alla presenza di un pubblico di dignitari ammirati ci si appresta a sistemarla al posto d’onore nella Grande Galérie. Per essa, tornata da Parigi, Paolo Toschi e Gerolamo Magnani penseranno a una posizione privilegiata, una sorta di sancta sanctorum di raffinata eleganza, un tabernacolo prezioso (dove si trova ancora oggi) entro il percorso del museo di Maria Luigia (Fornari Schianchi 1996, p. 164). Si è ragionato spesso anche sul rinnovarsi per Correggio, con quest’opera, di una committenza femminile, dopo il fondamentale rapporto con la badessa Giovanna da Piacenza, secondo la notizia, riportata dalla tradizione, di un contratto datato 1523 fra l’artista e donna Briseide Colla, coniugata con Ottaviano Bergonzi (della famiglia legata ai da Piacenza da vincoli di parentela), per un dipinto da destinare alla cappella di famiglia nella chiesa di Sant’Antonio.

Un’ipotesi suggestiva e singolarmente adeguata a cogliere e motivare l’atmosfera di squisita sensibilità, di discreta intima affettuosità che circola nella tavola, tuttavia parzialmente depotenziata da nuove documentate indagini (Ekserdjian 1997) che pongono in primo piano la figura e la cultura del marito, e in generale il mecenatismo artistico dei Bergonzi, inducendo un suo intervento diretto in rapporto alla commissione a Correggio, soprattutto in considerazione del fatto che nel 1528, data della sistemazione della tavola in Sant’Antonio e della morte di Briseide, lui era ancora in vita. Vi è poi da aggiungere che è comune opinione critica che la data di esecuzione del quadro vada piuttosto spostata dal 1526 al 1528, in coincidenza cronologica con i lavori in Duomo, sulla base di una serie di sincronie stilistiche che vanno dalla figura dell’efebo in profilo alla calda tavolozza cromatica, al “fare ampio”, plastico e chiaroscurato che caratterizza le singole figure poste davanti a noi secondo una proporzione così imponente da dar loro un’immanenza, un’istanza, un’autorevolezza di supremo carisma. Tutto ciò forse ha contribuito a preservare da pesanti interventi la delicata superficie, che si palesa ancora, malgrado le vernici francesi e qualche successiva polemica (Testi 1904, p. 90), sostanzialmente integra, grazie anche – come notava il pittore Mengs – a una stesura ricca, che nasconde e vela i contorni, “impastata”, di spessore, che non risparmiava nell’uso dei colori di buona qualità: la sapienza e l’orgoglio del mestiere, la consapevolezza tecnica e metalinguistica (che pensieri moderni da ritrovare in un artista del ’500!) come garanzia di lunga durata. Una squisitezza e raffinatezza materiche, che l’occhio di un altro pittore (in Cusatelli – Razzetti 1990, p. 168), l’inglese Joshua Reynolds, nel 1752 così descrive: “L’atteggiamento dei visi, le loro espressioni, il colore sono di estrema perfezione; è stato eseguito con molta bravura. Nessun giallo nelle carni, le ombreggiature sembra siano state aggiunte dopo, con un sottile strato di colore fatto di olio e azzurro e qualche volta di olio e rosso”, esprimendo un giudizio sintetico ma efficace: “Mi ha procurato il più grande godimento che abbia mai avuto da ogni altro quadro”.

Scheda di Luisa Viola tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.