Lo smembrato polittico raggiunse la collezione del duca don Ferdinando di Parma probabilmente subito dopo il 1790-1792, quando i cinque pannelli vennero descritti per la prima volta nel secondo Catalogo… per Carlo IV di Spagna.

Dal manoscritto del Tacoli si apprende che il polittico era già smembrato al momento del suo arrivo a Parma e i cinque scomparti erano attribuiti a epoche e autori diversi. Anche se la frammentazione dell’opera venne quindi documentata già al momento della sua prima citazione, è difficile stabilire se ciò sia avvenuto per volontà del marchese, presumibilmente desideroso di lucrare sulla compravendita di questi oggetti preziosi, o se fosse stato egli stesso vittima del mercato fiorentino, che gli aveva venduto separatamente i singoli scomparti attribuendoli a epoche vistosamente diverse per trarlo in inganno. Altrettanto difficile è sapere se l’oggetto comprendesse altri scomparti laterali, non acquistati dal Tacoli. Al momento dell’ingresso nella Quadreria ducale sulle ogive dei cinque disjecta membra venne applicata una cornice a pastiglia di gusto settecentesco, elemento distintivo presente in tutte le opere della collezione ducale.

Dei quattro scomparti laterali con San Pietro (n. 93), San Paolo (n. 94), San Giovanni Battista (n. 95) e “San Bernardino” (n. 96) rappresentati “in figura intiera”, il Catalogo del Tacoli fornisce le dimensioni (misurate in braccia e identiche per i quattro pezzi laterali) e il presunto autore (“Puccio Capanna”, col riferimento al maestro di questi, “Giotto”, e con una datazione approssimativa, “fioriva nel 1320”) (Talignani 1986).

Fra il 1802 e il 1821 alcuni dipinti, dopo essere transitati attraverso la collezione parmense, furono “conceduti ai Poveri Parochi di Campagna” su consiglio di Luigi Scutellari, probabilmente per scongiurarne il trasferimento in Francia (Baroncelli 1996). Fra le opere alienate nelle chiese del contado dovette esserci anche lo smembrato polittico in questione, perché non si trova alcun riferimento ad esso né nella Nota del Toschi del 1821, né nella Nota dei quadri del 1851 e nella Distinta dei mobili e oggetti del 1865 compilate da Gaetano Schenoni.

Per ciò che concerne il San Pietro e il San Paolo, essi furono trasferiti nella chiesa di San Vitale, da dove vennero poi rubati il 17 febbraio 1921. Restituiti nel novembre del 1926 dalla Soprintendenza di Milano che li aveva recuperati, essi divennero di proprietà della Congregazione Municipale di Carità prima di passare nella collezione di Giuseppe Stuard. Santangelo (1934) li riproduce prima del restauro del 1939 che avrebbe “liberato” le tavole dalla cornice settecentesca, e li ascrive a “Jacopo del Casentino”. Paccagnini (1940) ricorda il trasferimento delle due tavole alla Galleria parmense per essere accostate, su indicazione di Longhi, allo scomparto centrale che per l’occasione era stato restaurato. L’opera così ricongiunta “in trittico” venne attribuita da Longhi a Bernardo Daddi. Offner (1958) per primo si rende conto che essi sono disposti erroneamente, ripubblicandoli nella giusta posizione entrambi alla destra della Madonna (alla sinistra del pannello centrale per chi guarda, cfr. p. 42).

La dispersione del San Giovanni Battista e del San Francesco deve avere avuto inizio anch’essa fra il 1802 e il 1821 e se non fosse per le cornici settecentesche che ne testimoniano l’appartenenza alla collezione ducale nessun documento o indizio ci permetterebbe di stabilire che essi siano davvero transitati per Parma. Dopo l’inventariazione del Tacoli, in cui esse sono ricordate come opere da vendere, se ne perde infatti per lungo tempo le tracce.

Il San Giovanni Battista, nel 1959 nella collezione del marchese Pallavicini a Siena e poi, fino al 1962, presso Sestieri a Roma (Boskovits 1991), ora nel Museo Civico Amedeo Lia di La Spezia (inv. 145), viene ricollegato da Zeri al polittico parmense (1971 e 1983). Il pannello ligneo (cm 71 x 34) è stato decurtato in alto e in basso (la cornice settecentesca ha tagliato due falangi della mano destra del santo; in basso si è invece perso completamente il gradino a losanghe sotto il pavimento marmorizzato). La roccia “giottesca”, dal colore squillante e dalla conservazione perfetta, induce il sospetto che sia un’aggiunta ottocentesca: sembra di poter distinguere sul lato sinistro, sotto una caduta dell’oro, l’antico pavimento marmorizzato presente in tutti gli altri pannelli del polittico. Inoltre il manto roccioso, perfettamente intatto, prosegue senza alcuna screpatura perfino nelle parti estreme del pannello ligneo che erano nascoste dalla carpenteria, mentre è presumibile che il pigmento non coprisse quella superficie o che comunque, al momento dell’eliminazione della carpenteria, si fosse per lo meno sciupato.

Il San Francesco, la cui collocazione attuale è ignota, era nel 1917 presso l’antiquario D’Atri di Parigi, dove deve essere arrivato in seguito alla già ricordata dispersione delle opere parmensi nei due primi decenni dell’800. Dopo il restauro che aveva asportato la cornice settecentesca (l’unica prova tangibile della sua appartenenza alla collezione del duca don Ferdinando), il frammento venne pubblicato da Luisa Vertova nel 1967 come opera del Guariento. Zeri, pur ignorandone la citazione nel secondo Catalogo del Tacoli, la riconobbe come parte integrante dello smembrato polittico e ne pubblicò la foto del 1917, che ne mostrava lo stato prima del restauro (Zeri 1971 e 1983). Talignani, nel 1986 ne ha poi confermato l’attribuzione identificando il San Francesco nel “San Bernardino” descritto dal Tacoli al “n. 96” del Catalogo… per Carlo IV.

Il “Quadro nella sommità a lunetta con fondo d’oro rappresentante la Madonna sedente sopra un trono all’antica col Bambino a sedere sopra il ginocchio sinistro nell’atto di leggere” non viene inventariato in contiguità numerica coi quattro scomparti laterali nel Catalogo del 1790-1792, ma si incontra invece al “n. 150” con l’attribuzione a “Prima maniera di Benozzo Gozzoli”. Sul retro della tavola lignea, vicino all’attuale numero d’inventario, campeggia un cartellino con scritto “Etruria pittrice, 150” seguito dall’annotazione a mano: “Della I.ma maniera di Benozzo Gozzoli” (sul numero è però sovrascritto “n. 103”, traccia di una seconda inventariazione antecedente alla attuale).

Dello scomparto centrale si perdono le tracce fino alla seconda metà dell’800, quando ritorna nella Galleria parmense. Il suo rientro è avvenuto presumibilmente fra il 1821 e il 1875, anno in cui Pietro Martini (1875) ne documenta la collocazione nella “Sala dei dipinti antichi” con l’attuale numerazione d’inventario e con l’antica attribuzione a “Gozzoli Benozzo, Fiorentino”. Solo dopo la pubblicazione del Thode (1885), in cui si considera l’opera “von ein Schueler (von Giotto)… der mit in der Magdalenen-kapelle in Assisi thaetig gewesen ist”, Ricci (1896) ascrive timidamente l’opera a “scuola di Giotto”. Benché il Suida (1906 e 1923) proponga come autore il “Meister des Bigallo-triptychons… koennte wohl der Fruehzeit angehoeren, vielleicht noch den zwanziger Jahren”, van Marle (1924) non accoglie la preziosa indicazione e opta per ritenerlo di scuola di Taddeo Gaddi, così come Offner (1934) sceglie un “Remoter Following of Daddi”. Berenson (1932) e Longhi (Quintavalle 1939a; Paccagnini 1940) suggeriscono l’autografia di Bernardo Daddi, e dopo la parziale ricomposizione del polittico nel 1940 nella Galleria di Parma, tale attribuzione viene unanimemente accettata. Quintavalle (1939a) infine, attesta il primo intervento di restauro sullo scomparto centrale parmense (anche Paccagnini 1940).

Nessuna valida ipotesi è stata formulata sulla provenienza originaria del polittico e sulla committenza di un’opera così prestigiosa, a parte la proposta, priva di supporti, che l’opera provenga dalla cappella Pulci Berardi in Santa Croce (Offner-Steinweg).

La vendita del polittico al Tacoli non trova riscontro nei documenti fiorentini del 1785-1790, come si può osservare dall’elenco degli oggetti d’arte dispersi durante le soppressioni leopoldine compilato da Innocenti (1992).

Sul retro della Madonna col Bambino campeggia un marchio di proprietà impresso a fuoco sul legno, che attende uno studio approfondito da parte di specialisti del settore e che permette di avanzare qualche ipotesi ulteriore.

Il marchio scudiforme contiene un signum a forma di chiave che divide lo spazio in due campi, in ciascuno dei quali è presente una lettera. L’iniziale in maiuscolo gotico che grandeggia al lato sinistro della chiave sembra il segno abbreviativo cum o com, che starebbe per “Compagnia”, il termine usato a Firenze per denominare una confraternita (Sebregondi 1989). Mentre l’iniziale “P”, a destra della chiave, potrebbe indicare “Petri” (Cappelli 1973), che sarebbe in sintonia non solo con il simbolo della chiave, ma soprattutto con la collocazione di San Pietro nella zona laterale più importante del polittico, e cioè alla destra della Madonna. Che la “P” si riferisca a Pietro e non a Paolo, l’altro santo raffigurato alla destra dello scomparto centrale parmense, lo avvalora non solo la presenza della chiave e non della spada, ma anche il fatto che non esistono nella Firenze d’inizio ’300 confraternite di rilevanza dedicate a San Paolo. La Compagnia di San Pier Maggiore costituisce, invece, una delle più ricche e potenti istituzioni laiche della città, e nell’emblema che la contraddistingue campeggia il simbolo della chiave (come si vede nel Priorista di Luca Chiari del 1633). Il granduca Pietro Leopoldo decretò la demolizione di San Pier Maggiore il 27 luglio 1784, e in quest’occasione “trasse spunto per… incamerare gran parte degli innumerevoli beni delle suore” il cui patrimonio “non ritirato dalle famiglie patrone delle cappelle e degli altari fu venduto all’incanto il 6 luglio 1785” (Bietti 1989). Nell’Inventario datato 17 agosto 1784, in cui Covoni elenca le opere d’arte di San Pier Maggiore in attesa della dispersione finale, si inventaria al “n. 192” un “quadro, in tavola, rappresentante una Madonna con Gesù Bambino in collo ed altri Santi” depositato nella camera della “Madre Abbadessa”, luogo dove deve aver sostato piuttosto poco se si ritrova, con uguale numero d’inventario, a settembre dello stesso anno nella Nota delle masserizie… del soppresso monastero di San Pier Maggiore, il tutto consegnato al Seminario Fiorentino. Nonostante la genericità della descrizione, si può dire che questa sia l’unica citazione di opera su tavola con questo soggetto ricordata nella serie di inventari relativi a San Pier Maggiore del 1784-85 (l’arredo era quasi esclusivamente composto di opere a olio).

È dunque probabile che l’opera appartenesse al primo nucleo pervenuto al duca di Parma da Firenze e di cui Tacoli parla in una lettera all’Affò del 1787 (Talignani 1986, p. 35).

La prima notizia documentaria sulla Compagnia di San Pier Maggiore risale al 1330 (Henderson 1994), una data che potrebbe costituire un prezioso termine cronologico per il polittico, già considerato dalla critica una delle opere più rappresentative della fase giovanile di Bernardo Daddi.

Per l’evidente presenza di riferimenti al giovane Giotto e a certe soluzioni eccentriche adottate dal Maestro di San Martino alla Palma, la Madonna col Bambino sul prezioso trono cosmatesco accompagnata dai quattro santi è stata ascritta dalla critica, per via stilistica, agli anni venti del ’300, in un periodo che ha per termini cronologici la più antica Madonna col Bambino e santi del Museo di Radda in Chianti e il trittico conservato agli Uffizi, firmato e datato 1328, proveniente dal convento di Ognissanti.

Gli psichedelici tentativi di scorcio del trono si ritrovano anche negli affreschi della cappella Pulci Berardi di Santa Croce, che Offner-Steinweg (1989) ritenevano il riferimento stilisticamente più puntuale per il polittico parmense tanto da credere che esso fosse stato commissionato per la stessa cappella.

Scheda di Silvia Giorgi tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.