- Titolo: Lucrezia romana
- Autore: Sebastiano Ricci
- Data: 1680-1695
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 134 x 127
- Provenienza: Parma, Ospedali Riuniti; in Galleria dal 1972
- Inventario: Inv. s.n.
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: I grandi cicli mitologici
Il Ricci completa il gruppo con due composizioni dedicate ad altrettanti episodi di storia romana, proseguendo l’orientamento verso l’etica neostoica che prevedeva fermezza d’animo e impassibilità al dolore per una giusta causa. Fra i tanti momenti possibili della Storia raccontata da Tito Livio, il Ricci sceglie di presentarci Lucrezia già ferita a morte, mentre Tarquinio le trattiene la mano. Un episodio diffusissimo nella storia dell’arte a partire dal ’500 come simbolo cardine della virtù romana. Lucrezia, infatti, moglie di Collatino è vittima della violenza di Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo.
Ella cede all’aggressore, ma dopo aver scritto lettere al padre e al marito, si toglie la vita. Il Ricci mantiene la scena in primo piano, come negli altri dipinti della serie, senza allargare il campo visivo, e utilizza una luce che lambisce lo spazio, ma si concentra, in questo caso, sul petto della donna dagli abiti discinti, tratteggiati con un controllo rigoroso della pennellata, che oleosa e pastosa, procede sulla tela di notevole livello qualitativo, sempre sottovalutata a favore del Ricci luminoso neocinquecentista. Il Ruta (1740) valuta il dipinto 30 filippi. È una fase questa, invece, molto interessante che caratterizza un periodo alquanto breve, ma fondamentale per il suo sviluppo futuro nel quale ci mostra uno scorcio trasversale per conferire vitalità e movimento alla composizione, un modo speciale di tagliare le ombre e di articolare l’anatomia utilizzando la luce, oltreché adottando colori squillanti che si stagliano su quelli bituminosi del fondo, sondato anche attraverso la figura che emerge dall’ombra: una soluzione cara alla retorica barocca, ma anche al teatro, che il Ricci ha modo di frequentare a più riprese con l’esecuzione del sipario del Teatro Farnese (1690), ma anche, ancora unitamente a Ferdinando Bibiena, con la predisposizione delle scene del Roderico di Francesco Gasperini, rappresentato a Roma il 25 gennaio 1694 e dell’Orfeo del Sabatini andato in scena qualche giorno dopo. Considerando che il Ricci, grazie ai favori ottenuti da Ranuccio II, che il 2 marzo 1691 lo aveva premiato con “la patente di familiarità”, appena prima della partenza per Roma, dove l’artista si fermerà fino al 1694 e dove riceverà una pensione mensile di 25 corone per concludere i suoi studi, non sarà difficile immaginare che questi dipinti, da Ghidiglia Quintavalle ritenuti eseguiti proprio a Roma, potessero essere in qualche modo suggeriti dai Farnese, anche per i soggetti trattati, i quali calzerebbero alla perfezione con una cultura eroica e di legittimazione che la famiglia andava ricercando e perpetuando da sempre. Si pensi, inoltre, che il pittore aveva casa proprio in Palazzo Farnese, dove divideva con Pietro Antonio Barbieri da Pavia una camera nella “loggia grande superiore”, ed era provvisto di servitore, in tale Pietro Manciarancini di Castel Vetrano.
E i Farnese, si sa, non erano prodighi disinteressatamente. È per questo che a noi piace l’ipotesi che la severità dei temi e i suggerimenti morali che ne discendono abbiano a che fare con la Corte, più che con don Carlo Panizza, del quale, in questo senso, tacciono i documenti.
Il Daniels, invece, propende per una datazione al 1695, dopo il viaggio romano e prima di iniziare i lavori milanesi.
La Ceschi Lavagetto propone la loro esecuzione tra il ciclo di Piacenza (1687-88) e la partenza per Roma.