“Une considération surtout qu’il ne faut point perdre de vue, c’est que, si l’on bannit l’homme ou l’être pensant et contemplateur de dessus la surface de la terre, ce spectacle pathétique et sublime de la nature n’est plus qu’une scène triste et muette; l’univers se tait, le silence et la nuit s’en emparent. Tout se change en une vaste solitude où les phénomènes inobservès se passent d’une manière obscure et sourde. C’est la présence de l’homme qui rend l’existence des êtres intéressante: et que peut – on se proposer de mieux dans l’histoire de ces êtres que de se soumettre à cette considération? Pourquoi n’introduirons – nous pas l’homme dans notre ouvrage, comme il est placé dans l’univers? Pourquoi n’en ferons – nous pas un centre commun?… L’homme est le terme unique d’où il faut partir, et auquel il faut tout ramener… Abstraction faite de mon existence et du bonheur de mes semblables, que m’importe le reste de la nature?”

Così Diderot nella voce “Enciclopedia” dell’Encyclopédie (1751-1772) individua una nuova centralità dell’uomo, punto di vista assoluto e privilegiato, solo dal quale storia e natura derivano senso, un’affermazione, per i tempi, rivoluzionaria, dove il Romanticismo affaccia precocemente le sue ragioni. Così nel nostro doppio ritratto matrimoniale, che non a caso sembra recuperare tanto in dimensioni che in inquadratura (i due coniugi guardano frontalmente lo spettatore ma i loro busti sono impercettibilmente virati l’uno verso l’altro) una tipologia del primo Rinascimento, il fondo diventa uniforme per far risaltare l’assoluto protagonismo dell’uomo, la luce circola intorno accarezzando e sfiorando i volti e gli abiti, una limpida luce rivelatrice che dà risalto ai caratteri e alle psicologie (non levigante come quella di Baldrighi), lo sguardo è attirato da minimi particolari preziosi, che rivelano la cura e la dignità della persona. Ecco, soprattutto questo è l’elemento di novità di questi due straordinari ritratti: il rispetto e la consapevolezza di una dignità della condizione umana che assume un valore primario e assoluto, molto aldilà dello, status, del censo, del sangue. In questo senso, certo, sono ritratti “borghesi” (Riccomini 1977a), come i personaggi dei romanzi di Stendhal o di Balzac, i nuovi eroi saliti alla ribalta dal quotidiano. Letteralmente, nel nostro caso, qualora si voglia recuperare la dimensione umana di questi due eleganti, e discreti, parvenus. Lei, la moglie, Domenica Guadagnini, sposata nel 1769, proveniente da una famiglia artigiana di liutai; lui, Liborio, nato nel 1735, valet de chambre dal 1756, e per diciotto anni, del ministro Du Tillot, presso la cui casa e grazie alla cui familiarità (un Julien Sorel di provincia?) seppe crescere in una sorta di educazione sentimentale e culturale se nel 1770 fu nominato dalla Corte “conservatore dei rami” e delle stampe, chiaro simbolo di un nuovo status sociale. Il decreto di Don Ferdinando per la nomina recita “Informati noi pertanto della saviezza e fedeltà di Liborio Bertoluzzi, nel quale concorre pure l’intelligenza, e l’inclinazione a simile sorta di produzioni, siamo venuti in nominarlo Custode di detti Rami, e stampe da consegnarglisi con Inventario, e da ritenersi nella casa d’abitazione del predetto nostro Ministro, che a tal’effetto incarichiamo di dare occorrenti disposizioni, ingiungendogli a un tempo di far porre al Ruolo degli Impiegati per nostro Servigio il nominato Bertoluzzi col soldo mensile di lire duecento” (cfr. Lasagni 1999, I, ad vocem). A parte l’oggettiva oculatezza culturale e d’immagine di un’operazione volta a favorire la divulgazione delle opere e degli artisti del ducato, e parallelamente la crescita e l’aggiornamento degli ambienti artistici locali, la scalata sociale del Bertoluzzi si rivelò più precaria di quanto sarebbe stato possibile immaginare. Infatti, testimoniando assoluta fedeltà al suo protettore, e rivelando nei fatti quell’onestà morale che è alla radice degli stessi ritratti, Liborio segue il ministro nell’esilio parigino (post 1771), e tornerà a Parma solo nel 1776. Il ritorno non dovette essere facile, probabilmente fu vittima di una sorta di epurazione (come Petitot, come Baldrighi…), l’Archivio dei Rami fu trasferito presso l’Accademia di Belle Arti e solo nel 1788, alla morte del custode dell’Accademia Domenico Passerini, fu nominato al suo posto il Bertoluzzi, con diritto di alloggio nei locali dell’istituzione medesima. Considerando l’età dimostrata dagli effigiati, non mi pare si possano situare i nostri ritratti se non dopo il ritorno a Parma, dunque post 1776 ma prima della morte del Ferrari (1787). Non stupisce che si rivolgesse a Ferrari, considerando che entrambi avevano origine a Sissa (il Bertoluzzi possedeva una serie di proprietà e affitti a Castelfoschino di Sissa) ed erano oltretutto assolutamente coetanei, credo anzi si possa immaginare sia stato proprio il Bertoluzzi a fare da tramite fra il pittore delle sue parti e il potente mecenate, anche in occasione del celebre ritratto (cfr. scheda n.721), a mio avviso proveniente dalla sua collezione. Come nella sua casa dovevano certamente essere collocati, quasi numi tutelari e beneauguranti, questi due ritratti, anche se non citati effettivamente nella lista dei beni testamentari, ma forse perché rimasti nella disponibilità della moglie sopravvissuta e usufruttuaria (cfr. Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Callani e Bertoluzzi, cc. 30 sgg.). Pur ignorando la trafila attraverso la quale sono pervenuti alla Galleria, abbiamo alcuni indizi significativi: il figlio di Liborio, Giuseppe, risulta dal 1804 professore dell’Accademia di Belle Arti, confermato nel 1812 e nel 1816, ma in anni non facili naturalmente. Tanto che lui stesso, piangendosi un po’ addosso, rivela (Vite manoscritte, in Cirillo – Godi 1980, II, pp. 96-97): “Niuna entrata proveniente da fondi o capitali gode il menzionato Gius.e Bertoluzzi, avendo dovuto alienare in più volte il tenuissimo di lui patrimonio, consistente in undici biolche di terra poste in Castelfoschino di Sissa onde provvedere alla sussistenza di sua famiglia negli anni disastrosi per l’Accademia dalla caduta di Moreau sino alla crezione della Scuola di Pittura, nel quale spazio di tempo i Professori dell’Accademia non percepivano che scarse e rare sovvenzioni, sulle quali non si poteva pur anche contare con sicurezza”. Se vendeva la terra e le case, avrebbe potuto vendere anche i quadri, magari prima delle biolche considerando che questa è stata di solito la strada seguita dai collezionisti parmensi in difficoltà, in più il suo ruolo glielo avrebbe reso non difficile, dunque questa potrebbe essere stata la strada attraverso la quale le tele familiari pervennero alle raccolte pubbliche. Tutti questi elementi situazionali parlano a favore di una coerente e unica fase ideativa, di commissione ed esecutiva, anche se le minime differenze dimensionali (il rapporto di parità oggettiva fra i due coniugi ostacola qualsiasi interpretazione di questo dato in direzione maschilista) possono far ritenere di poco precedente il ritratto della moglie. In questa direzione mi sembra assolutamente non sostenibile l’ipotesi affiorata (Giusto 1989a; Ceschi Lavagetto 1989) pare riprendendo una noticina peraltro non motivata di Bédárida (1928b, ed. 1986, II, p. 499) di attribuzione al Baldrighi del solo ritratto di Liborio (oltretutto il Bédárida glieli riferiva entrambi, il che avvalora l’idea di un possibile fraintendimento). Ipotesi tanto più balzana dunque se si valuti che al contrario le fonti (a partire da Scarabelli Zunti fine del XIX secolo) sono concordi nell’attribuire la coppia al Ferrari, ma basterebbe poi il confronto tra il ritratto di Liborio e quello del Du Tillot per fugare ogni dubbio: lo stesso sguardo ravvicinato ai dettagli materici tessuti da piccoli tocchi a tratteggio, la stessa acribia descrittiva e grafica in punta di pennello, la stessa onestà intellettuale nel rivelare le cadute e i segni dell’età sui volti (quella più matura coscienza della verità fisionomica che in parte mancava a Baldrighi) la stessa air de tête, così francese… Certo i modelli francesi sono ancora importanti per Ferrari, ma in questa fase direi anche la ritrattistica equilibrata e ottica del Batoni a Roma, e soprattutto risuona una straordinaria consonanza, certo difficile da giustificare in termini di stretta filologia ma sulle cui tracce lo avrebbe potuto portare la presenza di Zoffany a Parma, con i nuovi, intimisti, affettuosi, disinvolti ritratti della tradizione inglese (da Allan Ramsay a Reynolds). Dove trovare in Italia, a queste date, la mano confidenziale e delicata che ricama l’acconciatura piccolo borghese di fioretti blu e cuffiettina di pizzo sui capelli increspati e lievemente ingrigiti della signora Bertoluzzi, dove trovare il rigonfiarsi soffice della pelliccia, gioiello povero, intorno al collo, dove la morbidezza del mantello azzurro e bianco, incorniciato il cappuccio di pelo di lapin, che pudicamente le abbraccia le spalle ombreggiandole il seno; c’è ancora la delicatezza di un pastello di Fragonard, c’è già la seduttività di un ritratto di Ingres, c’è l’alta dimensione etica, senza prosopopea, il pudore orgoglioso della Lucia di Alessandro Manzoni.

Bibliografia
Toschi 1825, p. 62, 15;
Ricci 1896, pp. 250, 260;
Scarabelli Zunti fine del XIX secolo, Documenti…, c. 105;
Quintavalle A.O. 1939, pp. 285, 236;
Bigliardi 1977, p. 44;
Riccomini 1977a, p. 130;
Fornari Schianchi 1979b, p. 119;
Cirillo – Godi 1979b, p. 41;
Fornari Schianchi s.d. [ma 1983], p. 217;
Ceschi Lavagetto 1989, pp. 246, 251;
Giusto 1989a, p. 715;
Sani 1993, p. 104;
Barocelli 1996, p. 114
Mostre
Parma 1979
Luisa Viola, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.