- Titolo: Le Marie al sepolcro
- Autore: Bartolomeo Schedoni
- Data: 1613 circa
- Tecnica: Olio su tela
- Dimensioni: cm 200 x 281
- Provenienza: Fontevivo, chiesa dei Cappuccini; Accademia, 1806; poi in Galleria
- Inventario: GN 133
- Genere: Pittura
- Museo: Galleria Nazionale
- Sezione espositiva: Bartolomeo Schedoni
- Sezione espositiva: Gli emiliani 1500-1600
Il dipinto era collocato in un alloggiamento a destra dell’altar maggiore di fronte alla Deposizione, anche se le loro misure presentano un discreto scarto dimensionale. Di fatto però questa scena rappresenta la continuità di quella precedente e l’ulteriore prova di una maestria esecutiva che Schedoni raggiunge, come apice della sua carriera, proprio in questa unitaria impresa per i cappuccini di Fontevivo, voluta da Ranuccio I Farnese.
Se si osservano gli altri dipinti eseguiti per le celle del recinto forse a partire dal 1608-1611 oggi a Capodimonte si vedrà come una evoluzione continua del suo metodo che si fonda e aderisce di volta in volta al recupero del Correggio, alle luci di Caravaggio alle suasive proposte di impronta classicista di Ludovico e Annibale Carracci, un naturalismo dimesso, di sintesi ma di forte impatto, come nel san Pietro che, deposti i preziosi oggetti di culto e la mitria e la tiara, si presenta come un vecchio sanguigno, ripreso dalla strada, mentre le chiavi penzolano da un cubo di pietra grigia, forse arenaria delle nostre valli. O come nel san Paolo racchiuso nel suo studio, lo spadone appoggiato alla spalla, sommerso dalle pagine bianche vergate di grandi libri che ci invitano a tornare alle fonti della cristianità. Ma i toni delle vesti, gli spinti abbinamenti cromatici, e le incisive, profonde pieghe composte ad arte ci mostrano a Fontevivo un artista del colore e dei panneggi per antonomasia che, a Parma, non si vedrà più se si esclude il contemporaneo Lanfranco, la cui vita di molti anni si prolunga e si riempie di successi a Roma e Napoli.
Lanfranco è a Parma e Piacenza, dopo il primo soggiorno romano, proprio in questi anni di intenso lavoro di Schedoni a Fontevivo, fra il 1610 e il 1612, e anche se non possiamo documentare un incontro diretto fra i due, è certo che, in molti casi, si dirama una consonanza ben rintracciabile nel san Luca, ad esempio, eseguito per Santa Maria a Piazza di Piacenza, poi passato al Collegio notarile di quella città, datato 1611, dove l’impostazione magniloquente e intima insieme reca abbondanti tracce delle esclusività romane. Anche per Schedoni è documentato un viaggio a Roma presso Federico Zuccari, ma la malattia e la nostalgia del suo domestico ambiente fra Modena e Parma non gli consentono una lunga sosta e, forse, un diverso avvenire artistico.
Ma la sua esperienza, pur caratterizzata dalla ristrettezza dei confini, non gli impedisce di toccare con quest’opera un apice, un culmine, di dire una parola nuova, di aggiungere un esempio ammirato, laudato, prima all’interno della Corte farnesiana e del circuito cappuccino e poi in Galleria.
Il passo biblico ripreso dal Vangelo di Marco (16,1-8) e da quello di Matteo (28, 1-8) ci dice che “dopo il sabato, all’alba del primo giorno della Settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a vedere il sepolcro. Quand’ecco venne un gran terremoto; poiché un Angelo del Signore, sceso dal cielo, venne a ribaltare la pietra, e vi si sedette sopra. Il suo aspetto era come la folgore, e la sua veste candida come la neve… Ma l’angelo prese a dire alle donne: ‘Non temete, voi; so, infatti, che cercate quel Gesù che è stato crocifisso. Non è qui! È risorto, come aveva detto’” (Matteo). Mentre Marco scrive che “appena terminato il sabato, Maria di Magdala e Maria, madre di Giacomo, e Salomè comprarono dei profumi, poi andarono per fare su di lui le unzioni. E, di buon mattino… vennero al sepolcro quando il sole era già sorto… guardando videro che la pietra già stava rivoltata da un lato… ed entrate… scorsero un giovane seduto, a destra, vestito di bianco e furono prese da stupore e terrore …”. Lo Schedoni, cui erano stati suggeriti i passi sacri, trasforma e interpreta la scena, come un grande regista e scenografo, prepara il fondale (era l’alba) la luce si stende lieve sul paesaggio del fondo e sottolinea il candore delle vesti dell’angelo contornato da una nuvola che si sta stemperando in un trapasso luminoso. Le tre Marie si inchinano davanti al mistero, si atteggiano al dialogo per sentire quell’annuncio “Resurrexit” e rimanere sorprese come dichiarano i gesti e i volti seminascosti nell’ombra dei manti. La Maddalena ripiega il suo lungo manto rosaceo e mostra il suo vasetto di unguento che posa sulle dita, elegante fragile trasparente, come quelli che il Parmigianino inserisce nei suoi quadri, con lo stesso tocco lieve delle Vergini che, alla Steccata, sfiorano le lampade spente o accese. Quella Maddalena che “aveva sopportato la compagnia dei banditi, il contatto dei lebbrosi, l’insolenza dei gendarmi… davanti alla Passione dimentica l’amore… ed entra in quella caverna scavata nella profondità di se stessa” (Yourcenar 1989, p. 250).
Si fondono qui la rivisitazione del più puro manierismo, la teatralità da sacra rappresentazione di derivazione medioevale, un anticipato neoclassicismo, aggiunti alla naturalezza più che alla verità caravaggesca (anche qui i piedi sono in primo piano, ma sono levigati e brillanti come purificati dalla neve nonostante il lungo cammino) e poi ancora l’abilità del drappeggio, il superbo uso del colore che carica le tonalità correggesche e le abbina in una magica armonia e in “smisurati contrasti”. È il teatro, con le sue regole, che conduce il pennello, che coinvolge e che persuade come la chiesa aveva preteso e dichiarato dopo la Controriforma. E Schedoni aderisce ai precetti, posizionando i suoi attori, le sue luci in un’alba fredda, il giorno di Pasqua, in un arco di pochi mesi del 1613, data cui viene fatta risalire l’opera.