Benchè decurtata, ritagliata, pesantemente scalpellata e con numerose fratture, la lastra è ancora leggibile nei suoi elementi fondamentali. A sinistra si conserva parte del tralcio niellato e della cornice con pendoni che doveva inquadrarne tre lati.

Lo specchio figurato si apre a sinistra con un angelo nimbato dalle ali spiegate finemente lavorate, seguito da quattro immagini più piccole la cui identificazione è possibile grazie alle scritte superstiti in corrispondenza di ognuna di esse: in alto il leone e l’aquila – solo di quest’ultima sono riconoscibili la sagoma con le ali aperte e i resti del tratteggio delle penne nella parte terminale – simboli degli Evangelisti Marco e Giovanni, come recitano le scritte MARCUS e IOH; in basso due figure umane, probabilmente rivolte verso il centro della lastra, identificabili con i Padri della Chiesa GERONIMUS e G[RE]GORIUS dalle relative scritte. A destra, in quello che in origine doveva essere il centro della lastra, si individua il Cristo benedicente in mandorla seduto sull’arcobaleno sul fondo di un cielo stellato, segnato dagli astri graffiti sul marmo. Della restante scena è rimasto soltanto un angelo con le ali spiegate nella parte alta, simmetrico all’aquila di Giovanni e chiaramente identificabile con il simbolo di Matteo, mentre la presenza del quarto Evangelista è desumibile dalla scritta LUC[AS] all’estrema destra della lastra. Nella parte bassa rimangono le sagome di due figure di profilo, delle quali solo quella più vicina alla mandorla è identificabile come un altro Padre della Chiesa dalla scritta AMBROSIUS. Logicamente anche la quarta figura doveva rappresentare un Padre della Chiesa, ma la decurtazione della lastra di circa 65-70 cm non permette di conoscerne il nome, così come si può solo supporre che, dopo il toro simbolo dell’Evangelista Luca, la scena si concludesse con un altro grande angelo, simmetrico a quello a sinistra.

L’analisi della lastra con la Majestas Domini non può prescindere dal raffronto con quella della Deposizione ancora in Cattedrale, con la quale è stata giustamente messa in rapporto dalla critica fin dai primi studi, memore del passo del cronista parmigiano Angelo Maria Edoari da Erba, il quale nel 1572 – quindi appena sei anni dopo l’intervento di completo riassetto dell’area presbiteriale della Cattedrale parmense ad opera di Girolamo Mazzola Bedoli – descrive così l’opera antelamica: “[…] e di basso riglievo, e minutissimo taglio, in tre tavole di marmo bianco di Carrara, scolpì tutti li misteri della passione di Nostro Signore e l’eresse in forma di Teatro sopra quattro colonne, dove dal Clero si leggono al popolo i giorni festivi nella Chiesa Cattedrale gli Evangeli”.

Se dunque le due lastre fanno parte dello stesso arredo, come dimostrano le dimensioni (con le dovute integrazioni per quanto riguarda la Majestas) e la cornice, e questo insieme fu realizzato da Benedetto Antelami nel 1178 (come si evince dall’iscrizione della Deposizione) molto dibattuto è il problema della composizione dell’arredo presbiteriale stesso.

Della lunga serie di interventi, solo quello del Testi (1934) mette in dubbio la paternità antelamica della Majestas, mentre per quanto riguarda la collocazione già i primi interventi sistematici sulla lastra pongono l’alternativa fra pulpito e pontile. Lo Jullian (1929), dopo aver collegato la lastra a quella della Deposizione per affinità stilistiche e averne messo in evidenza il carattere colto dell’iconografia, sulla base delle dimensioni, assegna entrambi i pezzi a un pulpito. Sempre sulla base di un’attenta analisi delle misure il Pelicelli (1929a) giunge a una conclusione del tutto diversa: la Deposizione sarebbe stata parte di un pulpito insieme ad altre due lastre con la Passione di Cristo, mentre la Majestas, la cui misura originaria dovrebbe essere di tre metri, proprio come l’arcata laterale di accesso alla cripta, sarebbe stata inserita da Antelami nel precedente pontile quando aggiunse alla struttura una terza scala di accesso mediana; la Majestas dunque avrebbe avuto la funzione di parapetto laterale, unitamente a un’altra lastra sul lato opposto di uguali dimensioni. La soluzione del Pelicelli è accettata totalmente dal Soncini (1929), il quale ribadisce anche che l’intervento antelamico fu limitato ad alcune parti del precedente arredo presbiteriale, e giudicata “ingegnosa” dallo Jullian (1945), che rivede le proprie precedenti teorie giungendo a escludere l’appartenenza delle due lastre a un unico ambone, pur non proponendo soluzioni alternative soprattutto per la collocazione della Majestas.

Nonostante l’Ottaviano Quintavalle (1947) torni a proporre la sua appartenenza a un pulpito, la soluzione del pontile sembra essere quella più seguita dalla critica, soprattutto dopo le affermazioni del de Francovich (1952), seguito dal Rosati (1958), dal Salvini (1961) e dal Quintavalle (1969), quest’ultimo però nell’ambito di un sistema collegato pontile-pulpito.

Nel 1974 Quintavalle riesamina tutto il problema relativo alla Cattedrale parmense e restituisce la lastra della Majestas al pulpito, collocandola in posizione frontale, insieme alla Deposizione e, probabilmente, a una perduta Ultima Cena. Questa restituzione è ribadita dallo stesso studioso (Quintavalle 1990), il quale inserisce il pulpito antelamico in una precedente recinzione presbiteriale di epoca nicolesca, che sarebbe stata modificata e forse anche diversamente ricomposta, ma non distrutta dall’Antelami; inoltre sarebbe confermata “per via archeologica” la presenza di una scala mediana, come attestano le fonti antiche, e quindi diventerebbe impossibile la presenza di un pontile.

Al contrario il Montorsi (1992) ritorna al sistema pontile-pulpito, utilizzando la lastra della Majestas come fronte del pulpito e la Deposizione come parte del parapetto del pontile; completa poi il sistema con una lastra dell’Ultima Cena, di dimensioni maggiori delle altre (analogamente al pontile di Modena), con una rappresentante la Resurrezione e, senza chiarire se si tratta di un reimpiego o di opere antelamiche, con parte delle lastre con tralci e con immagine clipeata che il Quintavalle aveva attribuito a epoca nicolesca.

Infine, anche l’iscrizione mutila del bordo superiore è stata oggetto di due diverse interpretazioni: nel 1962 il Guerra, basandosi su una fantasiosa trascrizione di don Marastoni (che legge la seconda parte: “EX SPECIE FACTI SUNT CORAM-SCICA-NACTI NAM SINE RE CERTA PENSIS OCULISQUE REFERTA”), traduce: “Nell’intenzione del committente, questi quattro posti sullo stesso pannello bene eseguiti furono mentre tenevano in mostra la -scica- che non senza un preciso significato fu riempita di fiocchi e di cerchi. Viva!”. Seguendo questa interpretazione – secondo lui derivata dalla Lettera di san Paolo ai Corinti – il Guerra propone una ricostruzione dell’ambone con la Majestas a ovest e una lastra con gli Evangelisti Matteo e Giovanni e due Dottori della Chiesa orientale a est. Legge correttamente invece lo Zarotti (1970): “Tra i soggetti dell’autore, questi quattro, che hanno una sola dottrina (di una sola bocca), bellamente scolpiti, furono forniti, non senza fondato motivo, di corpi simbolici, ripieni di penne e occhi”. Il riferimento è chiaramente alla scena sottostante e ai simboli dei Quattro Evangelisti, mentre non è chiaro cosa si intenda con “actor”, se il committente o l’autore, cioè l’autorità patristica e veterotestamentaria cui i versi sembrerebbero rimandare (Zanichelli 1990b).

L’autografia dell’iscrizione non è posta in dubbio, così come ormai non è più dibattuta la paternità antelamica e la datazione della lastra al 1178 circa, anche se a queste conclusioni si arriva sopprattutto per confronti diretti con la Deposizione: la stessa altezza e lo stesso spessore, l’identica cornice a niello e l’analoga impostazione della scena depongono a favore di un’identità di mano. Certo nella Majestas non è possibile individuare la cultura di Antelami nei volti dei personaggi, nei panneggi, nel modo di rendere i capelli e di disporre le figure; si scorgono solamente le fini incisioni delle penne dell’angelo del tutto simili a quelle della Deposizione e all’angelo del capitello con scene del Genesi.

Per quanto riguarda l’originaria collocazione delle due lastre, al momento attuale, nonostante le contrastanti opinioni di autorevoli studiosi, non vi sono ragioni per dubitare delle fonti antiche e quindi per assegnarle entrambe a un pulpito, la cui terza lastra poteva logicamente rappresentare l’Ultima Cena; ipotesi, quest’ultima, resa verosimile sia da confronti con monumenti provenzali come Saint-Gilles du Gard e Beaucaire, sia per analogia con il pontile modenese eseguito dai Maestri Campionesi.

Se l’intervento antelamico si sia limitato all’inserimento del pulpito e al riadattamento dell’arredo nicolesco o abbia riprogettato tutto il sistema presbiteriale rimane un problema ancora dibattuto; è invece pienamente accettabile la relazione, che anche di recente è stata ribadita (Quintavalle 1990), tra la nuova iconografia antelamica e l’eresia catara; infatti solamente alla luce delle lotte antiereticali si possono spiegare i motivi di specifiche scelte tematiche e di riferimenti a particolari modelli culturali, che non sono solo di Antelami, ma coinvolgono le officine che tra la seconda metà del XII e i primi decenni del XIII secolo lavorano nelle Cattedrali dell’Italia settentrionale e della Provenza, trasformandone l’immagine secondo le nuove esigenze. L’eresia catara si diffonde particolarmente in queste due regioni e giunge a organizzarsi in chiesa antagonista a quella di Roma. È proprio per rispondere all’abiura dei catari che la Chiesa cattolica studia un nuovo sistema di immagini: di fronte al rifiuto del sacramento della Comunione compaiono in tante Cattedrali, e forse anche a Parma, le scene dell’Ultima Cena; di fronte al rifiuto della Croce perché simbolo della morte del Cristo e quindi della vittoria di Satana ecco la rappresentazione della Deposizione come martirio e venerazione della Croce simbolo di salvezza; infine, la Majestas Domini, cioè il giudizio finale che porterà alla condanna divina degli eretici, ma anche i simboli evangelici e i Padri della Chiesa, cioè l’affermazione della validità dei Vangeli e della continuità della dottrina di Roma.

Scheda di Maria Pia Branchi tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere dall’Antico al Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1997.